Per uno di quei curiosi giuochi del destino Andrea Tonacci, italiano nato in Italia da genitori italiani, ha finito col diventare diventato un nome di spicco in un cinema distantissimo dal nostro, quello brasiliano. La famiglia si trasferì infatti in territorio paulista quandi lui aveva undici anni, e qui cominciò coi sui primi lavori negli anni '60. Nel 1971, a 27 anni, gira il primo lungometraggio, Bang Bang, opera seminale del cosiddetto "Cinema marginal" (che NON è il Cinema Novo, badate).
Bang Bang è uno strano e incomprensibile assemblaggio di eventi, sperimentale all'eccesso. La storia -se mai c'è- non è mai esplicitata chiaramente: ci sono due tizi in automobile, tre banditi bunueliani (uno è un cieco che spara a casaccio, uno è vestito da donna e mangia in continuazione, un terzo non fa che pettinarsi), un tale che indossa una maschera di scimmia in bagno e canta, una donna che balla sui tetti, un prestigiatore. I tre banditi danno la caccia al mascherato (che nel frattempo si è tolto la maschera) e cercano di strappargli una valigetta, poi accadono strane cose col prestigiatore in una camera da letto e poi comunque non si capisce un cazzo. Non siamo lontani da un Un chien andalou in salsa sudamericana (anche se di atmosfera brasiliana si percepisce poco, data l'ambientazione surreale del tutto). I dialoghi, spesso sovrastati dal rumore ambientale, non hanno particolare significato, e i nostri antieroi si muovono in città indifferenti o stanze disturbanti (di spicco certe scene girate in ascensori; la camera da letto dove il prestigiatore si dedica alle sue magie; il grande garage dove appaiono per la prima volta i banditi, appollaiati su un divano in cima a uno scaffale).
Un mindfuck non proprio bellissimo, ma visivamente fascinoso.
lunedì 28 dicembre 2015
martedì 1 dicembre 2015
Filibustieri sul NES: la Color Dreams
Molti conoscono l'alter ego di James Rolfe, ovvero l'Angry Video Game Nerd. Chi lo conosce sa anche delle numerose puntate che ha dedicato a massacrare i videogiochi a tema biblico, in particolare quelli terribili prodotti dalla Wisdom Tree per NES (non che giochi dello stesso genere prodotti da altra gente e per altri sistemi siano migliori, comunque), e che hanno portato questi prodotti a conoscenza di un pubblico assai più vasto di quello originario. È forse lecito chiederselo: che cosa spinge un'azienda ad imbarcarsi in un progetto tanto assurdo quanto lo è quello di fare videogiochi religiosi? Profonde convinzioni morali? Niet. Amore per le sfide? Niet. Il vil denaro? BINGO!
I giochi Nintendo degli anni '80 erano colorati, divertenti, piacevoli, rassicuranti; facevano di tutto per nascondere il fatto che la grande N fosse in realtà una spregevole corporazione assetata di yen e senza cuore. Le pratiche di mercato nintendare non andavano troppo per il sottile; a Kyoto avevano ben in mente due cose fondamentali: dominare il mondo dei videogiochi e mantenere tale mondo in buona salute. Il secondo obiettivo non era stato tenuto molto ben presente da Atari e compagni, cosa che aveva portato alla crisi dei videogiochi del 1983 e la perdita da parte della grande A di un impero che sembrava indistruttibile. La Nintendo imparò la lezione e decise di farsi più furba, applicando le dovute contromisure. Una di queste, nata dalla considerazione che tra le cause della crisi si poteva annoverare la massiccia circolazione di software di bassissima qualità, fu l'imposizione alle software house di produrre solo pochi giochi all'anno, che dovevano essere preapprovati dalla N stessa. Per impedire alle softhouse di aggirare questi (ed altri) divieti, la Nintendo inseriva personalmente in ogni singola cartuccia prodotta un chip che serviva ad autenticare il gioco una volta inserito nel NES, interfacciandosi con un chip "fratello" contenuto nella console. Se non c'era il chip, il gioco non partiva.
Non tutti accettarono di buon grado questa sorta di controllo orwelliano. Nel corso degli anni nacquero diversi team che rifiutarono le condizioni Nintendo e studiarono sistemi per aggirare il lock-out, pubblicando giochi non licenziati; perlopiù si trattava di compagnie taiwanesi e hongkonghesi, più qualcuna coreana, ma non mancarono esempi di pirati occidentali: australiani, britannici (Codemasters) e ovviamente statunitensi (tra cui la Tengen, ovvero la stessa Atari). In quest'ultimo gruppo merita particolare attenzione, IMHO, la surreale Color Dreams, il vero oggetto del mio sproloquio (finalmente!).
Fondata in California da Dan Lawton nel 1989, la Color Dreams negli anni si costruì una solidissima reputazione di sforna-schifezze (come quasi tutti gli altri team pirata, del resto). A fatica potrete trovare qualche prodotto quantomeno giocabile nel suo pur vasto parco titoli. Avendo raggiunto al suo apice la quota di -si dice- sessanta dipendenti è ragionevole supporre che gli introiti della società non fossero comunque troppo malvagi; la domanda su chi comprasse la loro roba nasce comunque spontanea (mi viene da pensare che riuscissero a vendere i loro prodotti perchè costavano meno -non dovendo pagare royalties a Nintendo- ma è una mia supposizione, non so nemmeno se sia vero). Lawton aggirava il lock-out inserendo nelle cartucce una circuiteria che usava corrente elettrica per shockare il chip nella console, "ubriacandolo" e disattivandone temporaneamente le funzioni: un trucco molto comune tra i pirati.
I giochi CD, oltre ad essere brutti forte, non cedono mai a considerazioni etiche. Uno dei loro titoli più famosi e "migliori", Robodemons, è addirittura impregnato di tematiche horror e sataniche. Epperò è dalla CD che nasce la summenzionata Wisdom Tree. Come è possibile?
La Nintendo non poteva accettare la presenza di un vastissimo contingente di persone che vendevano giochi per la loro console senza pagarle i diritti, tantopiù che il 99,999% di quei titoli erano merda liquida. Intentò cause a parecchi team, ma non cavò un ragno dal buco (mi pare che finì col perdere buona parte di queste cause). Passò quindi alle maniere forti: impose ai rivenditori finali di non commercializzare titoli non licenziati, pena la rescissione del contratto con la grande N. Ovvero: o vendete solo i giochi di team licenziatari (Konami, Capcom, Namco, Activision...) o solo quelli pirata (CD, Sachen, ConySoft...). Ardua scelta, eh?
Con le gambe segate dal provvedimento, i pirati cercarono altri sbocchi. Lawton si rese quindi conto di non aver mai considerato il sempre fiorente mondo religioso americano; i rivenditori di materiale cristiano non vendevano giochi -e non erano perciò toccati dai divieti Nintendo- ma avrebbero potuto essere interessati a vendere videogames a tema. In un attimo venne creata la WT, e alcuni giochi CD furono riconvertiti alla bell'e meglio per soddisfare il nuovo mercato. L'idea funzionò, e questo fu quanto.
CD e WT presero strade diverse a metà anni '90. Wisdom Tree esiste ancora oggi e si occupe sempre dello stesso settore. La Color Dreams invece non opera più; Lawton fondò la StarDot, che costruisce telecamere a circuito chiuso ed esiste ancora oggi, e vi spostò quasi tutto il suo personale.
La Color Dreams ci ha lasciato una vasta eredità di fetenzie. Sarebbe giusto parlarne diffusamente, ma non ho mai osato avvicinarmi troppo ai loro meravigliosi titoli. Con l'eccezione di Robodemons, mi sono limitato a vedere alcuni video, e direi che basta ed avanza. I giochi CD sono terribili già dalla confezione esterna: a differenza delle cartucce NES regolari (quelle "mattonelle" grigie che i meno giovani ricorderanno bene), le cartucce CD sono di un assurdo azzurrino chiaro; tutti i giochi non licenzati avevano in effetti supporti non-standard, ma quelli di Lawton si beccano il premio per il peggior colore. Un chiaro avvertimento: "se il gioco è così brutto fuori, figuratevi dentro". Dentro, del resto, ci trovate inequivocabilmente grafica approssimativa, sonoro fastidioso, bug in quantità, gravi difetti di game (e level) design, stupidate varie assortite. Spesso inoltre la CD si occupò anche della distribuzione su suolo USA di titoli prodotti dalla leggendaria softhouse taiwanese Sachen/Joy Van/Thin Chen Enterprise (a seconda di come girava), giochi la cui qualità era persino peggiore (!!!) di quelli statunitensi.
Insomma, Lawton e soci non si facevano mancare nulla.
Io ho giocato per qualche minuto a Robodemons. Che dire, non ve lo consiglio. Ma ad essere sincero, ho giocato di peggio. Vi lascio un video e un link bonus nel quale è riassunto tutto il gioco: cercateci il livello "The level of flesh", non ve ne pentirete.
I giochi Nintendo degli anni '80 erano colorati, divertenti, piacevoli, rassicuranti; facevano di tutto per nascondere il fatto che la grande N fosse in realtà una spregevole corporazione assetata di yen e senza cuore. Le pratiche di mercato nintendare non andavano troppo per il sottile; a Kyoto avevano ben in mente due cose fondamentali: dominare il mondo dei videogiochi e mantenere tale mondo in buona salute. Il secondo obiettivo non era stato tenuto molto ben presente da Atari e compagni, cosa che aveva portato alla crisi dei videogiochi del 1983 e la perdita da parte della grande A di un impero che sembrava indistruttibile. La Nintendo imparò la lezione e decise di farsi più furba, applicando le dovute contromisure. Una di queste, nata dalla considerazione che tra le cause della crisi si poteva annoverare la massiccia circolazione di software di bassissima qualità, fu l'imposizione alle software house di produrre solo pochi giochi all'anno, che dovevano essere preapprovati dalla N stessa. Per impedire alle softhouse di aggirare questi (ed altri) divieti, la Nintendo inseriva personalmente in ogni singola cartuccia prodotta un chip che serviva ad autenticare il gioco una volta inserito nel NES, interfacciandosi con un chip "fratello" contenuto nella console. Se non c'era il chip, il gioco non partiva.
Non tutti accettarono di buon grado questa sorta di controllo orwelliano. Nel corso degli anni nacquero diversi team che rifiutarono le condizioni Nintendo e studiarono sistemi per aggirare il lock-out, pubblicando giochi non licenziati; perlopiù si trattava di compagnie taiwanesi e hongkonghesi, più qualcuna coreana, ma non mancarono esempi di pirati occidentali: australiani, britannici (Codemasters) e ovviamente statunitensi (tra cui la Tengen, ovvero la stessa Atari). In quest'ultimo gruppo merita particolare attenzione, IMHO, la surreale Color Dreams, il vero oggetto del mio sproloquio (finalmente!).
Fondata in California da Dan Lawton nel 1989, la Color Dreams negli anni si costruì una solidissima reputazione di sforna-schifezze (come quasi tutti gli altri team pirata, del resto). A fatica potrete trovare qualche prodotto quantomeno giocabile nel suo pur vasto parco titoli. Avendo raggiunto al suo apice la quota di -si dice- sessanta dipendenti è ragionevole supporre che gli introiti della società non fossero comunque troppo malvagi; la domanda su chi comprasse la loro roba nasce comunque spontanea (mi viene da pensare che riuscissero a vendere i loro prodotti perchè costavano meno -non dovendo pagare royalties a Nintendo- ma è una mia supposizione, non so nemmeno se sia vero). Lawton aggirava il lock-out inserendo nelle cartucce una circuiteria che usava corrente elettrica per shockare il chip nella console, "ubriacandolo" e disattivandone temporaneamente le funzioni: un trucco molto comune tra i pirati.
I giochi CD, oltre ad essere brutti forte, non cedono mai a considerazioni etiche. Uno dei loro titoli più famosi e "migliori", Robodemons, è addirittura impregnato di tematiche horror e sataniche. Epperò è dalla CD che nasce la summenzionata Wisdom Tree. Come è possibile?
La Nintendo non poteva accettare la presenza di un vastissimo contingente di persone che vendevano giochi per la loro console senza pagarle i diritti, tantopiù che il 99,999% di quei titoli erano merda liquida. Intentò cause a parecchi team, ma non cavò un ragno dal buco (mi pare che finì col perdere buona parte di queste cause). Passò quindi alle maniere forti: impose ai rivenditori finali di non commercializzare titoli non licenziati, pena la rescissione del contratto con la grande N. Ovvero: o vendete solo i giochi di team licenziatari (Konami, Capcom, Namco, Activision...) o solo quelli pirata (CD, Sachen, ConySoft...). Ardua scelta, eh?
Con le gambe segate dal provvedimento, i pirati cercarono altri sbocchi. Lawton si rese quindi conto di non aver mai considerato il sempre fiorente mondo religioso americano; i rivenditori di materiale cristiano non vendevano giochi -e non erano perciò toccati dai divieti Nintendo- ma avrebbero potuto essere interessati a vendere videogames a tema. In un attimo venne creata la WT, e alcuni giochi CD furono riconvertiti alla bell'e meglio per soddisfare il nuovo mercato. L'idea funzionò, e questo fu quanto.
CD e WT presero strade diverse a metà anni '90. Wisdom Tree esiste ancora oggi e si occupe sempre dello stesso settore. La Color Dreams invece non opera più; Lawton fondò la StarDot, che costruisce telecamere a circuito chiuso ed esiste ancora oggi, e vi spostò quasi tutto il suo personale.
La Color Dreams ci ha lasciato una vasta eredità di fetenzie. Sarebbe giusto parlarne diffusamente, ma non ho mai osato avvicinarmi troppo ai loro meravigliosi titoli. Con l'eccezione di Robodemons, mi sono limitato a vedere alcuni video, e direi che basta ed avanza. I giochi CD sono terribili già dalla confezione esterna: a differenza delle cartucce NES regolari (quelle "mattonelle" grigie che i meno giovani ricorderanno bene), le cartucce CD sono di un assurdo azzurrino chiaro; tutti i giochi non licenzati avevano in effetti supporti non-standard, ma quelli di Lawton si beccano il premio per il peggior colore. Un chiaro avvertimento: "se il gioco è così brutto fuori, figuratevi dentro". Dentro, del resto, ci trovate inequivocabilmente grafica approssimativa, sonoro fastidioso, bug in quantità, gravi difetti di game (e level) design, stupidate varie assortite. Spesso inoltre la CD si occupò anche della distribuzione su suolo USA di titoli prodotti dalla leggendaria softhouse taiwanese Sachen/Joy Van/Thin Chen Enterprise (a seconda di come girava), giochi la cui qualità era persino peggiore (!!!) di quelli statunitensi.
Insomma, Lawton e soci non si facevano mancare nulla.
Io ho giocato per qualche minuto a Robodemons. Che dire, non ve lo consiglio. Ma ad essere sincero, ho giocato di peggio. Vi lascio un video e un link bonus nel quale è riassunto tutto il gioco: cercateci il livello "The level of flesh", non ve ne pentirete.
domenica 22 novembre 2015
"Hukkunud Alpinisti” hotell (1979)
Mentirei se dicessi che “Hukkunud
Alpinisti” hotell (traducibile in stivalese come “L'hotel
dell'alpinista morto”) mi ha convinto. Pure, resta un lavoro di
bizzarro fascino.
Prodotto apparentemente di culto nella natìa Estonia, miscela un po' grottesca di giallo, thriller e fantascienza, il film (girato nel 1979 dal sovietico Grigori Kromanov, alla sua ultima opera) si snoda in ottanta minuti scarsi all'interno di un albergo d'alta montagna dal nome inquietante, nella cui hall campeggia la gigantografia proprio del defunto che dà nome allo stabile. L'ispettore Glebsky vi giunge perché una telefonata anonima ha richiesto la sua presenza lì, per indagare su un omicidio; una volta sul posto lo accolgono un enorme Sanbernardo ed il simpatico signor Snewahr, proprietario dell'albergo, il quale non solo smentisce che sia avvenuto un assassinio, ma aggiunge che nessuno ha telefonato alla polizia.
Ormai è tardi per tornare indietro (il meteo è inclemente), e Glebsky si prende una meritata giornata di riposo in mezzo ai monti (per inciso, location di certo non estoni, dato che l'altura massima di quel paese non tocca i 320 metri1). Incontra i pochi altri ospiti dell'hotel (gente cordiale, in qualche caso un po' stramba), passa un bel pomeriggio e, una volta giunta la sera, una slavina isola lo chalet dal resto del mondo. E, per soprammercato, alcune cose inquietanti cominciano ad accadere: uno degli ospiti ad esempio viene davvero ucciso, un altro sparisce nel nulla, un altro strano tizio dall'aspetto e dal comportamento enigmatici (per non parlare del nome) verrà invece trovato fuori dall'albergo più morto che vivo. Insomma, che succede in questo simpatico posticino?
Non ci si aspettino sviluppi di trama alla Shining (le premesse sono del resto molto diverse, al di là dell'albergo d'alta montagna). Il nostro amico sovietico Kromanov gira una pellicola dall'atmosfera un po' malsana e poco chiara in cui si sviluppa una sorta di climax nel quale premesse credibili sfociano in una storia dalle pieghe irreali e del tutto non risolta. Il finale è infatti piuttosto ambiguo, e nel caso qualcuno non se ne fosse accorto è lo stesso Glebsky a sottolinearlo nel “monologo” finale.
La pellicola è geograficamente eterogenea. Produzione sovietica, parlata in estone, è stata girata sicuramente al di fuori della zona baltica; la sceneggiatura è tratta da un romanzo di due fratelli, Arkadi e Boris Strugatski, di origine georgiana (anche se Boris è nato in Russia), meglio noti come autori di Picnic sul ciglio della strada (il racconto che fu embrione dell'acclamatissimo Stalker di Tarkovskij). Il personaggio centrale, Glebsky, è interpretato da un lettone, l'attore Uldis Pūcītis, così come è lettone Kārlis Sebris, interprete di un altro personaggio chiave (Moses). Pūcītis, che non avrebbe sfigurato granché come volto di James Bond, è sullo schermo praticamente in continuazione e rende piuttosto credibile il suo granitico ispettore. Gli altri individui (che sono solo nove) sono generalmente più abbozzati, ed è un peccato, anche se la cosa va ad aiutare la tetra atmosfera di incertezza che pervade “Hukkunud Alpinisti” hotell. Atmosfera ben alimentata anche dalle musiche vagamente oniriche di uno dei principali artisti estoni, Sven Grünberg; nella OST peraltro spicca, per bellezza e per differenza rispetto al resto dello score, l'elettronicissima “Ball”, che finirà anni dopo in quel Sügisball di cui parlai mesi e mesi fa.
Non saprei francamente a chi consigliare un film del genere. Forse ai patiti di oscurantismo cinematografico2. Comunque, nel complesso sufficiente.
(Nota: “Hukkunud Alpinisti” hotell non è mai uscito in italiano. Se per caso, nonostante tutto, siete decisi a prenderne visione, esistono i sottotitoli in inglese (non ho indagato per altre lingue). Se però siete così bravi da essere fluenti in russo o -peggio- in estone, potete godervelo doppiato o addirittura nell'originale ugrofinnico. Beati voi!)
[1] Non ho trovato informazioni sui luoghi delle riprese. Fonti non ufficiali parlano di Francia o Svizzera francese: non ho motivo di dubitare della cosa, ma non posso nemmeno confermare con certezza. Mi pare anche strano che nel '79 una troupe -per di più baltica- abbia potuto uscirsene dall'URSS ed andare a girare tranquillamente un film nell'Europa capitalista.
[2] In realtà non so cosa sto dicendo. Non fateci caso.
Questa locandina non ha molto a che vedere
con il film, in realtà.
con il film, in realtà.
Prodotto apparentemente di culto nella natìa Estonia, miscela un po' grottesca di giallo, thriller e fantascienza, il film (girato nel 1979 dal sovietico Grigori Kromanov, alla sua ultima opera) si snoda in ottanta minuti scarsi all'interno di un albergo d'alta montagna dal nome inquietante, nella cui hall campeggia la gigantografia proprio del defunto che dà nome allo stabile. L'ispettore Glebsky vi giunge perché una telefonata anonima ha richiesto la sua presenza lì, per indagare su un omicidio; una volta sul posto lo accolgono un enorme Sanbernardo ed il simpatico signor Snewahr, proprietario dell'albergo, il quale non solo smentisce che sia avvenuto un assassinio, ma aggiunge che nessuno ha telefonato alla polizia.
Ormai è tardi per tornare indietro (il meteo è inclemente), e Glebsky si prende una meritata giornata di riposo in mezzo ai monti (per inciso, location di certo non estoni, dato che l'altura massima di quel paese non tocca i 320 metri1). Incontra i pochi altri ospiti dell'hotel (gente cordiale, in qualche caso un po' stramba), passa un bel pomeriggio e, una volta giunta la sera, una slavina isola lo chalet dal resto del mondo. E, per soprammercato, alcune cose inquietanti cominciano ad accadere: uno degli ospiti ad esempio viene davvero ucciso, un altro sparisce nel nulla, un altro strano tizio dall'aspetto e dal comportamento enigmatici (per non parlare del nome) verrà invece trovato fuori dall'albergo più morto che vivo. Insomma, che succede in questo simpatico posticino?
Non ci si aspettino sviluppi di trama alla Shining (le premesse sono del resto molto diverse, al di là dell'albergo d'alta montagna). Il nostro amico sovietico Kromanov gira una pellicola dall'atmosfera un po' malsana e poco chiara in cui si sviluppa una sorta di climax nel quale premesse credibili sfociano in una storia dalle pieghe irreali e del tutto non risolta. Il finale è infatti piuttosto ambiguo, e nel caso qualcuno non se ne fosse accorto è lo stesso Glebsky a sottolinearlo nel “monologo” finale.
La pellicola è geograficamente eterogenea. Produzione sovietica, parlata in estone, è stata girata sicuramente al di fuori della zona baltica; la sceneggiatura è tratta da un romanzo di due fratelli, Arkadi e Boris Strugatski, di origine georgiana (anche se Boris è nato in Russia), meglio noti come autori di Picnic sul ciglio della strada (il racconto che fu embrione dell'acclamatissimo Stalker di Tarkovskij). Il personaggio centrale, Glebsky, è interpretato da un lettone, l'attore Uldis Pūcītis, così come è lettone Kārlis Sebris, interprete di un altro personaggio chiave (Moses). Pūcītis, che non avrebbe sfigurato granché come volto di James Bond, è sullo schermo praticamente in continuazione e rende piuttosto credibile il suo granitico ispettore. Gli altri individui (che sono solo nove) sono generalmente più abbozzati, ed è un peccato, anche se la cosa va ad aiutare la tetra atmosfera di incertezza che pervade “Hukkunud Alpinisti” hotell. Atmosfera ben alimentata anche dalle musiche vagamente oniriche di uno dei principali artisti estoni, Sven Grünberg; nella OST peraltro spicca, per bellezza e per differenza rispetto al resto dello score, l'elettronicissima “Ball”, che finirà anni dopo in quel Sügisball di cui parlai mesi e mesi fa.
Non saprei francamente a chi consigliare un film del genere. Forse ai patiti di oscurantismo cinematografico2. Comunque, nel complesso sufficiente.
(Nota: “Hukkunud Alpinisti” hotell non è mai uscito in italiano. Se per caso, nonostante tutto, siete decisi a prenderne visione, esistono i sottotitoli in inglese (non ho indagato per altre lingue). Se però siete così bravi da essere fluenti in russo o -peggio- in estone, potete godervelo doppiato o addirittura nell'originale ugrofinnico. Beati voi!)
[1] Non ho trovato informazioni sui luoghi delle riprese. Fonti non ufficiali parlano di Francia o Svizzera francese: non ho motivo di dubitare della cosa, ma non posso nemmeno confermare con certezza. Mi pare anche strano che nel '79 una troupe -per di più baltica- abbia potuto uscirsene dall'URSS ed andare a girare tranquillamente un film nell'Europa capitalista.
[2] In realtà non so cosa sto dicendo. Non fateci caso.
giovedì 19 novembre 2015
Frightmare (C64/Spectrum, 1988)
Un difetto che ho sempre apprezzato
nei cari vecchi videogame di una volta -diciamo soprattutto nei primi due terzi degli anni '80- è il dilettantismo. Cioè, come
dire, il fatto che ancora il mercato non si fosse espanso fino alla
necessità di dover anteporre il budget (e posporre il marketing) al
semplice prodotto "videogioco" in sé. Lo so, non mi sto spiengando per niente; quel che sto dicendo si riferisce fondamentalmente al proliferare
incontrollato di una quantità elevatissima di titoli e generi (e perfino
certe piattaforme), tutti fuoriusciti da software house spesso
contraddistinte da scarsissime capacità di pianificazione e tanto
pressapochismo. Il controllo qualità ai tempi era fondamentalmente un optional.
Il continente videogame era ancora in gran parte inesplorato, e i primi
pionieri erano non di rado parecchio disorganizzati. Beninteso, non che
gli errori non si facciano anche oggi (almeno suppongo, seguo poco il mercato odierno...), ma la
mentalità dell'ambiente si è senz'altro irreggimentata. Così se nel
ventunesimo secolo un titolo come Big Rigs fa sicuramente scalpore -una
demo buggata può divertire, ma non quando te la vendono (anche
se io ho una teoria più "complottista" al riguardo)-, anni addietro i
prodotti subottimali erano più numerosi e insidiosi.
Così magari la presto obliata Cascade fa uscire, nel 1988, Frightmare su C64, Spectrum e PC. Platform a tinte horror senza particolari meriti, difficile anche per i motivi sbagliati (controlli farraginosi, armi deboli, nemici eccessivamente tosti, bastardissimi vicoli ciechi), Frightmare non raggiunse mai una grande celebrità, ed oggi è pressoché dimenticato. Ha dalla sua, almeno su biscottone, un'atmosfera interessante, con tutti i cliché del caso, secondo me ben aiutata da una grafica non troppo elaborata, e un bizzarro sistema di punteggio che, invece di essere numerico, indica stati come "Bad dreams", "Horrible nightmare" e robe del genere: alzare il punteggio si traduce in un peggioramento dello stato onirico. Folkloristico.
Quello che collega Frightmare al mio sproloquio iniziale è il sistema di avanzamento del gioco. La trama ci vede addormentati e intrappolati in un incubo, dal quale ci risveglieremo solo facendo visitare al nostro avatar tutte le stanze del gioco. Un indicatore mostra l'ora della notte in cui ci troviamo: all'inizio è mezzanotte in punto, e la scoperta di ogni nuovo livello fa avanzare l'ora di 6 minuti; il gioco termina quando si arriva alle 8 e 12 minuti: la sveglia suonerà ponendo fine all'orribile notte. Il problema è che il gioco ha 79 stanze, e basta fare due conti per accorgersi che si può arrivare al massimo alle 7 e 54. Mancano ventiquattro minuti di gioco, cioè quattro stanze! Playtesting, questo sconosciuto: questi tizi hanno scritto un intero videogioco senza accorgersi -o peggio ancora, senza curarsi del fatto- che NON È ASSOLUTAMENTE POSSIBILE FINIRLO! E l'hanno tranquillamente MESSO IN VENDITA!
Favoloso.
Così magari la presto obliata Cascade fa uscire, nel 1988, Frightmare su C64, Spectrum e PC. Platform a tinte horror senza particolari meriti, difficile anche per i motivi sbagliati (controlli farraginosi, armi deboli, nemici eccessivamente tosti, bastardissimi vicoli ciechi), Frightmare non raggiunse mai una grande celebrità, ed oggi è pressoché dimenticato. Ha dalla sua, almeno su biscottone, un'atmosfera interessante, con tutti i cliché del caso, secondo me ben aiutata da una grafica non troppo elaborata, e un bizzarro sistema di punteggio che, invece di essere numerico, indica stati come "Bad dreams", "Horrible nightmare" e robe del genere: alzare il punteggio si traduce in un peggioramento dello stato onirico. Folkloristico.
Quello che collega Frightmare al mio sproloquio iniziale è il sistema di avanzamento del gioco. La trama ci vede addormentati e intrappolati in un incubo, dal quale ci risveglieremo solo facendo visitare al nostro avatar tutte le stanze del gioco. Un indicatore mostra l'ora della notte in cui ci troviamo: all'inizio è mezzanotte in punto, e la scoperta di ogni nuovo livello fa avanzare l'ora di 6 minuti; il gioco termina quando si arriva alle 8 e 12 minuti: la sveglia suonerà ponendo fine all'orribile notte. Il problema è che il gioco ha 79 stanze, e basta fare due conti per accorgersi che si può arrivare al massimo alle 7 e 54. Mancano ventiquattro minuti di gioco, cioè quattro stanze! Playtesting, questo sconosciuto: questi tizi hanno scritto un intero videogioco senza accorgersi -o peggio ancora, senza curarsi del fatto- che NON È ASSOLUTAMENTE POSSIBILE FINIRLO! E l'hanno tranquillamente MESSO IN VENDITA!
Favoloso.
martedì 17 novembre 2015
domenica 1 novembre 2015
Damage: The Sadistic Butchering Of Humanity (Amiga, 1996)
La Finlandia. Terra di Babbo Natale,
Linus Torvalds, Anna Falchi e poco altro. Videogame? Mah, poco e niente:
il nome più importante è quello del grande sessantaquattrista Stavros
Fasoulas (Sanxion, Delta, Quedex), in tempi più recenti si è fatto
notare Lasse Oorni (pure lui su C64, ma dato che stiamo parlando di anni
2000 non è che sia un nome granché noto).
Viene comunque da quelle lande il simpaticherrimo Damage: The Sadistic Butchering Of Humanity, che già dal nome ti lecchi i baffi. Prodotto nel 1996 dalla Suomi-Peli (in realtà semplicemente un gruppo di tre amici) Damage approda sugli Amiga con vecchio chipset. All hail to Amiga, ma perchè fare un gioco OCS a metà '90? In realtà è chiaro che la motivazione è la fallimentare politica commodoriana (il 1200 l'hanno comprato in pochi, e giustamente i finnici volevano raggiungere anche il vasto mercato 500/600); fortunatamente comunque Damage gira senza patemi su AGA. Scopo del gioco: UCCIDERE! AMMAZZARE! TERMINARE! In una deliziosa pixel-art modello "a confronto i Lemmings parevano elefanti", il nostro avatar -un energumeno vittima di sperimentazioni animali- se ne deve andare in giro per il paese a far vittime in uno shoot-em up 2D così brainless che più brainless non si può. Si parte con una mazza da baseball e via via si potranno ottenere pistolette, fucili, UNA MOTOSEGA! E droghe potenziatrici che però fanno più danni che bene. Con questo popò di roba i comuni cittadini non hanno scampo (e un bel bodycount sempre presente in alto ci aiuta a ricordare quanti ne abbiamo fatti fuori), ma occhio ai pulotti e all'esercito perché loro al fuoco rispondono eccome. Violenza insensata, sangue bitmap, difficoltà tosta, zero materia grigia, Amiga. Cazzo volete di più, un Lucano?
Nel 2013 è uscito un remake per Windows, ma non l'ho provato. I creatori del gioco hanno rilasciato gratuitamente gli .adf dei due floppy della versione Amiga, utilizzabili con un qualunque emulatore.
Viene comunque da quelle lande il simpaticherrimo Damage: The Sadistic Butchering Of Humanity, che già dal nome ti lecchi i baffi. Prodotto nel 1996 dalla Suomi-Peli (in realtà semplicemente un gruppo di tre amici) Damage approda sugli Amiga con vecchio chipset. All hail to Amiga, ma perchè fare un gioco OCS a metà '90? In realtà è chiaro che la motivazione è la fallimentare politica commodoriana (il 1200 l'hanno comprato in pochi, e giustamente i finnici volevano raggiungere anche il vasto mercato 500/600); fortunatamente comunque Damage gira senza patemi su AGA. Scopo del gioco: UCCIDERE! AMMAZZARE! TERMINARE! In una deliziosa pixel-art modello "a confronto i Lemmings parevano elefanti", il nostro avatar -un energumeno vittima di sperimentazioni animali- se ne deve andare in giro per il paese a far vittime in uno shoot-em up 2D così brainless che più brainless non si può. Si parte con una mazza da baseball e via via si potranno ottenere pistolette, fucili, UNA MOTOSEGA! E droghe potenziatrici che però fanno più danni che bene. Con questo popò di roba i comuni cittadini non hanno scampo (e un bel bodycount sempre presente in alto ci aiuta a ricordare quanti ne abbiamo fatti fuori), ma occhio ai pulotti e all'esercito perché loro al fuoco rispondono eccome. Violenza insensata, sangue bitmap, difficoltà tosta, zero materia grigia, Amiga. Cazzo volete di più, un Lucano?
Nel 2013 è uscito un remake per Windows, ma non l'ho provato. I creatori del gioco hanno rilasciato gratuitamente gli .adf dei due floppy della versione Amiga, utilizzabili con un qualunque emulatore.
giovedì 29 ottobre 2015
The Afterman (1985)
Se ci fosse un premio per la scenografia più pigra e scialba mai usata in un film postatomico, The Afterman sarebbe un credibile candidato per la vittoria. Dimenticate i deserti spopolati che Mad Max 2 e Hokuto no Ken hanno imposto come setting obbligatorio per questo genere di film: il belga Rob Van Eyck, regista e factotum di questa pressoché dimenticata pellicola, gira in ameni boschi ricchi di vegetazione e mostra orticelli coltivati perfettamente sani. Idem dicasi per gli homo sapiens: non se ne vedono molti, ma sono tutti più o meno in buona salute e dotati di fisionomie normali. Per dare l'impressione di mondo desolato, la scenografia si accontenta di far vedere qualche casa diroccata. Dove sono tutti i danni da bomba atomica che il cinema di genere ci ha insegnato ad amare? Beh, io non ho una risposta.
The Afterman fuoriesce dal Belgio, lato Fiandre, nel 1985. È un film con diverse particolarità. Una è discussa appena sopra: è un postapocalittico che non assomiglia per niente a un postapocalittico. All'inizio ho parlato in effetti di postatomico, ma la vera verità è che non c'è nulla che faccia realmente pensare che una bomba sia esplosa da qualche parte: il suggerimento viene unicamente dalla cover del DVD, sulla cui attendibilità non metterei la mano sul fuoco. Volessimo scartare questa interpretazione nucleare, potremmo dirigerci verso virus antropofagi, meteoriti, catastrofi ambientali di vario tipo, gamma-ray burst, zombi, parusie o kaiju: un'idea vale l'altra, tutto ciò che si sa è il cosa (= il mondo è assai meno popolato e più regredito di come lo conosciamo), mentre il come (= qual è la causa del disastro?) non sarà mai chiarito. È fin troppo evidente che Van Eyck non aveva franchi sufficienti per costruire un mondo desolato come Dio comanda1, ma l'impressione generale è che, dopotutto, neanche gli interessasse farlo (They just didn't care, come direbbero su TV Tropes). L'importante era la storia che aveva in mente, e basta.
E qual è questa storia? Va premesso che non è semplicissimo inquadrarla, perché un'altra particolarità di The Afterman, forse la sua caratteristica più peculiare, è la totale assenza di dialoghi. Si tratta quindi di intuire quel che succede su schermo… impresa ardua, vista la controintuitività delle situazioni. L'"Afterman" del titolo è un ragazzone di circa 35 anni (Jacques Verbist), dall'aspetto nerdoso e un po' sciatto, che vive in un bunker pieno di computer che, a quel che sembra, monitorizzano tutte le funzioni del rifugio. Il nostro uomo sembra essere qui da solo da molto tempo, forse anni (da quando il non specificato evento ha messo fine al mondo come lo conosciamo, probabilmente), e riempie le sue giornate mangiando cibo artificiale e scopando una donna cadavere tenuta in ghiaccio in una cella frigorif...
...ok, un momento.
Non so che genere di film avesse in mente di girare il buon Van Eyck. In pochi lo hanno visto, ma qualche opinione in rete si trova. C'è un certo consenso nel ritrovare, in questa pellicola, temi di una certa profondità: nella fattispecie si riscontrerebbe una riflessione sulla natura dell'uomo e dei suoi bisogni. Forse c'è del vero, ma è curioso constatare quanta sexploitation il regista abbia deciso di buttare dentro al film per fare passare il messaggio. The Afterman non è un porno, a fatica lo si potrebbe considerare un erotico, ma c'è comunque abbastanza carne (femminile) esposta da poterlo accusare di gratuità. L'intera pellicola parla di una comunità umana in cui ognuno è per sé e contro chiunque altro, e la soddisfazione dei bisogni della carne e dello stomaco è l'unica cosa che conta: mi sta bene, ma a che serve in tutto questo una scena lesbo di cinque minuti, ai fini della trama? Penso che tutti sappiamo la risposta.
Tornando a noi: la routine ormai atemporale del nostro uomo barbuto si interrompe quando un malfunzionamento dei sistemi di controllo rende inabitabile il bunker. Costretto ad affrontare il mondo esterno, l'Afterman si troverà invischiato in una serie di disavventure che sarebbero pure fantozziane se non fosse per l'atmosfera un po' squallida e cupa dell'ambiente (Van Eyck non sembra poi così sprovveduto, diciamolo). Il film ha una struttura grossomodo episodica, costellata di strane incoerenze nel setting2 e scarsamente comprensibile. Il nostro eroe subisce soprusi di vario tipo: viene sodomizzato dai primissimi uomini che incontra, addirittura, e verrà poi catturato e utilizzato come schiavo da un violento redneck. Durante la prigionia avrà una compagna di sventura, una ragazza bellissima (credo si tratti di tale Franka Ravet, purtroppo apparsa solo in questa pellicola) con la quale formerà, dopo un'iniziale diffidenza, una solida unione affettiva destinata a durare fino alla fine del film. Fine che giunge dopo un'ora e venti circa -non è un'opera lunghissima- e che, come era lecito aspettarsi, non è nemmeno un finale vero…
Soprassiedo sulle altre vicende che comunque non fuoriescono dal trend generale della pellicola e vado direttamente alle conclusioni. The Afterman in sostanza non mi ha deluso, ma probabilmente il mio parere sarebbe meno positivo se non ci fossero state quelle due o tre paia di tette che si vedono in giro. Ok, niente di trascendentale (anche se si tratta comunque di belle donne, la Ravet poi è davvero splendida), ma un po' di fanservice fa sempre il suo sporco lavoro. Le prove attoriali sono nella decenza (l'assenza di dialoghi ha aiutato), la qualità tecnica si salva e la stramba natura un po' arty e un po' exploitativa del tutto rende The Afterman un passaggio consigliato a tutti gli amanti delle stramberie. Tutti gli altri girino al largo.
[1] precisazione personale sulle lande postatomiche. Mad Max 2 settò uno standard quasi universale per questo tipo di ambientazione, ovvero l'outback australiano. Una scenografia suggestiva e funzionale che è entrata nell'immaginario collettivo, e sinonimo stesso del paesaggio postapocalittico in connubio con le città sporche e desolate stile Fuga da New York. Ma è pur vero che nessuno obbliga a costruire storie “after the end” forzatamente collocate in posti del genere. Due esempi a caso: nel 1901 Shiel ambientava La nube purpurea in una Terra con biomi sostanzialmente integri; la stessa cosa accadeva nel neozelandese The quiet Earth, questo peraltro coevo di The Afterman.
[2] nonostante l'indefinita catastrofe abbia senz'altro azzoppato la civiltà, vediamo posti inspiegabilmente ancora perfettamente funzionanti (un bunker è sfarzosamente arredato, con anche una piscina piena di acqua pulita e clorata; lo stesso rifugio del protagonista consuma per certo parecchia elettricità, che non si capisce da dove venga); a poca distanza vediamo invece contadini che non hanno il benché minimo macchinario e usano schiavi per tirare un aratro...
domenica 18 ottobre 2015
Super Mario bros. special (NEC PC-8801, 1986)
In quanto serie longeva, gradita e
fruttifera, la saga dell'idraulico Mario possiede un albero genealogico
lungo e complesso, che ramifica in tutte le piattaforme Nintendo e
svariate altre di altre Case. Già a poca distanza dalle radici il
vegetale dinastico comincia a prendere pieghe bizzarre, essendo almeno
tre gli immediati successori del leggendario Super Mario Bros del
1985. Gli SMB che si fregiano del "2" sono infatti altrettanti:
riassumendo per i poco informati, a noi occidentali venne propinato come
SMB2 l'adattamento marioso di tal Doki Doki panic (senza più
blocchi da prendere a testate e goomba da spiaccicare), mentre il
seguito "vero" -decisamente aderente agli stilemi del primo- uscì solo
in Cipango e rimase ignoto alla maggioranza degli europamericani fino a
che non fu recuperato su SNES in Super Mario All-Star, col nome di SM Lost Levels.
E il terzo successore? Si tratta ovviamente -come già spoilerato nel titolo del post- di Super Mario Bros special, che nonostante sia l'unico dei tre a non avere il "2" nel titolo è probabilmente il reale successore di SMB 1 almeno da un punto di vista cronologico (dico "probabilmente" perchè non trovo notizie certe e non ho voglia di googlare (lo so, non sono molto professionale (e me ne vanto))). Nelle intenzioni, invece, non si tratta di un sequel in senso stretto: è più una variazione sul tema del primo titolo.
Scritto dalla Hudson Soft su licenza Nintendo (e non dalla grande N stessa, sorprendentemente), praticamente sconosciuto in occidente, SMBS andò a finire sul PC-8801 e sull'X1, due computer prodotti rispettivamente da NEC e Sharp e mai usciti dal Giappone; in pratica quel genere di aggeggi per un esemplare dei quali baratterei volentieri buona parte del mio parentado. Dovendo lavorare con hardware più problematico di quello del NES, i programmatori della Hudson scesero a compromessi tali da snaturare il Mario originale: è probabilmente questo il motivo per cui si scelse di non fare un porting fedele del gioco di Miyamoto. SMB Special in verità sciocca ogni utente avvezzo alle classiche meccaniche mariose. Gli sprite sono di fatto uguali a quelli ben noti, ma il titolo ha un aspetto quantomeno lisergico, dominato da gialli, rossi e blu soprassaturi e del tutto privo di bianchi e verdi, che mette a dura prova le retine di chiunque (coadiuvato in questo da non sporadici sfarfallii), e la ben nota melodia viene riprodotta abbastanza alla qazzo di qane, un po' gracchiante e un po' saltellante. Quanto al sistema di gioco, la novità più evidente è che scompare lo scrolling: e qui son cazzi. Scartata infatti la decisione di mantenere un schermo scorrevole come nel capostipite -suppongo per difficoltà tecniche-, gli autori di SMBS optarono per una suddivisione dei livelli per quadri statici; una scelta che influisce non poco sul gameplay, dato che sadicamente non sono certo pochi i salti che ci si trova a dover fare "al buio", senza poter vedere dove atterreremo perchè la piattaforma che ci attende si trova nella schermata successiva e la sua posizione è ignota fino all'ultimo. Ad aggravare il tutto ci si mette una fisica agghiacciante che rende faticoso gestire i movimenti di Mario, sia a terra sia soprattutto in aria. In conseguenza di tutto ciò la difficoltà del gioco è estrema, e proseguire diventa un esercizio basato sostanzialmente su prove ed errori. Finezza ulteriore, la brodaglia viene allungata dal fatto che ad ogni morte tocca ricominciare dal principio del livello.
Non ci sono altre modifiche evidenti, se non che tutti i livelli sono stati ridisegnati rispetto al primo Mario, rendendo così peraltro impossibile usare l'esperienza guadagnata giocandoci in questo strambo sequel. Onestamente, nonostante i miei termini poco generosi SMBS è un gioco in realtà affascinante, che richiede però quantitativi non comuni di pazienza e abilità manuale per essere goduto appieno. Per me, che sono fondamentalmente un cialtrone del videogaming, sono state necessarie tre ore per adattarmi alla sbilenca coordinazione dei movimenti di Mario ed arrivare alla fine (dopo infiniti trial&error) a vedere addirittura il SECONDO livello. A quel punto ho preferito chiudere l'esperienza, per esaurimento nervoso (e anche perchè gli esuberanti cromatismi mi stavano bruciando le cornee). Consiglio comunque a tutti di dargli un'occhiata.
E il terzo successore? Si tratta ovviamente -come già spoilerato nel titolo del post- di Super Mario Bros special, che nonostante sia l'unico dei tre a non avere il "2" nel titolo è probabilmente il reale successore di SMB 1 almeno da un punto di vista cronologico (dico "probabilmente" perchè non trovo notizie certe e non ho voglia di googlare (lo so, non sono molto professionale (e me ne vanto))). Nelle intenzioni, invece, non si tratta di un sequel in senso stretto: è più una variazione sul tema del primo titolo.
Scritto dalla Hudson Soft su licenza Nintendo (e non dalla grande N stessa, sorprendentemente), praticamente sconosciuto in occidente, SMBS andò a finire sul PC-8801 e sull'X1, due computer prodotti rispettivamente da NEC e Sharp e mai usciti dal Giappone; in pratica quel genere di aggeggi per un esemplare dei quali baratterei volentieri buona parte del mio parentado. Dovendo lavorare con hardware più problematico di quello del NES, i programmatori della Hudson scesero a compromessi tali da snaturare il Mario originale: è probabilmente questo il motivo per cui si scelse di non fare un porting fedele del gioco di Miyamoto. SMB Special in verità sciocca ogni utente avvezzo alle classiche meccaniche mariose. Gli sprite sono di fatto uguali a quelli ben noti, ma il titolo ha un aspetto quantomeno lisergico, dominato da gialli, rossi e blu soprassaturi e del tutto privo di bianchi e verdi, che mette a dura prova le retine di chiunque (coadiuvato in questo da non sporadici sfarfallii), e la ben nota melodia viene riprodotta abbastanza alla qazzo di qane, un po' gracchiante e un po' saltellante. Quanto al sistema di gioco, la novità più evidente è che scompare lo scrolling: e qui son cazzi. Scartata infatti la decisione di mantenere un schermo scorrevole come nel capostipite -suppongo per difficoltà tecniche-, gli autori di SMBS optarono per una suddivisione dei livelli per quadri statici; una scelta che influisce non poco sul gameplay, dato che sadicamente non sono certo pochi i salti che ci si trova a dover fare "al buio", senza poter vedere dove atterreremo perchè la piattaforma che ci attende si trova nella schermata successiva e la sua posizione è ignota fino all'ultimo. Ad aggravare il tutto ci si mette una fisica agghiacciante che rende faticoso gestire i movimenti di Mario, sia a terra sia soprattutto in aria. In conseguenza di tutto ciò la difficoltà del gioco è estrema, e proseguire diventa un esercizio basato sostanzialmente su prove ed errori. Finezza ulteriore, la brodaglia viene allungata dal fatto che ad ogni morte tocca ricominciare dal principio del livello.
Non ci sono altre modifiche evidenti, se non che tutti i livelli sono stati ridisegnati rispetto al primo Mario, rendendo così peraltro impossibile usare l'esperienza guadagnata giocandoci in questo strambo sequel. Onestamente, nonostante i miei termini poco generosi SMBS è un gioco in realtà affascinante, che richiede però quantitativi non comuni di pazienza e abilità manuale per essere goduto appieno. Per me, che sono fondamentalmente un cialtrone del videogaming, sono state necessarie tre ore per adattarmi alla sbilenca coordinazione dei movimenti di Mario ed arrivare alla fine (dopo infiniti trial&error) a vedere addirittura il SECONDO livello. A quel punto ho preferito chiudere l'esperienza, per esaurimento nervoso (e anche perchè gli esuberanti cromatismi mi stavano bruciando le cornee). Consiglio comunque a tutti di dargli un'occhiata.
sabato 10 ottobre 2015
L'arbitro (2009/2013)
Nel 2009 il cagliaritano Paolo Zucca gira un curiosissimo cortometraggio che in quindici minuti scarsi concentra spericolatamente un gran numero di eterogenee suggestioni: stereotipi bucolici in generale e sardi in particolare si fondono con estetica dadaista, richiami a Ciprì e Maresco (tra cui il b/n è forse la caratteristica meno marcata), echi di Osvaldo Soriano e cupi riferimenti biblici, il tutto su un substrato costituito dal sempiterno gioco del futbol (o meglio, di quello che passa per tale nelle estreme periferie del dilettantismo). Nel corto -che merita almeno una visione, quantomeno in premio all'originalità- un arbitro corrotto (Luca Pusceddu) retrocede per punizione dalle stelle dell'UEFA alle stalle della terza categoria, dove finisce ad arbitrare una partita tra due squadre che è in realtà somatizzazione di una faida tra borgate; nel frattempo proprio in seno a uno dei due team si consuma il dramma di due pastori che -anche se compagni di squadra- sono a loro volta in guerra tra loro.
Il corto è apprezzatissimo (fa incetta di premi anche all'estero) e nel 2013 Zucca lo dilata fino all'ora e mezza riempiendolo anche con nomi di spicco (Accorsi -che prende il posto di Pusceddu-, Pannofino, Di Clemente, la Cucciari, Messeri). La storia raccontata nel corto viene rigirata in modo praticamente identico e diventa il finale, così che tutti i settantacinque minuti precedenti servono nei fatti a costruire una cornice un po' più corposa alla partita. L'arbitro assume così una personalità più dettagliata, la faida tra i paesi assume un respiro più ampio e molto spazio viene dato a personaggi singolari e spesso inediti rispetto al corto (il bomber Matzutzi che torna dall'argentina, il coach cieco dell'Atletico Pabarile e la di lui figlia, il fetentissimo arbitro Mureno).
Divertente, piuttosto insolito e molto ben girato, con un b/n splendido. Gli appassionati di Osvaldo Soriano non mancheranno di notare un esplicito riferimento al grandioso racconto Il rigore più lungo del mondo. Alcuni dialoghi sono purtroppo in sardo e non si capisce un cazzo, ma sono solo due o tre e comunque il senso generale del discorso è comprensibile.
Geograph Seal (Sharp X68000, 1989)
Un imprecisato giorno del 1997 andai a Desenzano del Garda a comprarmi una Playstation, obiettivo a cui miravo da tempo. Originariamente la mia intenzione era quella di abbinare l'acquisto a Tohshinden 2 (o come cappero si scrive); col passare del tempo l'idea divenne invece quella di prendere Tekken 2. Quel giorno del 1997 il negozio non aveva nè l'uno nè l'altro, e davanti alla prospettiva di dovermene restare a fissare il bios della console (che non potevo nemmeno usare per ascoltare i CD musicali, perchè non ne avevo nemmeno uno) finii col comprare, non ricordo come e perchè, Jumping Flash 2. Che non avevo mai sentito nominare. E che mi piacque assai.
JF2 è il seguito di un gioco di cui al momento non mi sovviene il nome. Entrambi sono stati prodotti da una softhouse giapponese poco nota in occidente chiamata Exact, che un giorno sarebbe stata assorbita dalla Sony; nei suoi anni da indipendente però ebbe modo di secernere qualche simpatico giocattolo per Sharp X68000 (mai usciti dal Giappone nè il computer nè tantomeno i giochi). Tra questi troviamo Geograph Seal, uscito nel 1994, da cui i JF si discosteranno ben poco.
Geograph Seal dunque. Allora, sostanzialmente GS prende le mosse da un oscuro prodotto a nome Gamma Planet, uscito sempre per X68k nel 1989 dalla altrettanto oscura software house Compac (almeno così parrebbe). Gamma Planet era una sorta di FPS ante-litteram con molti prestiti dal presitorico Battlezone della Atari (in primis la grafica vettoriale). Cinque anni dopo Exact riprende da GP quasi tutto, sostituisce vettori con poligoni, aumenta la velocità e tira fuori Geograph Seal.
In sostanza GS ci vede alla guida di un mech che deve aggirarsi per livelli irti di ostacoli e nemici allo scopo di distruggere una serie di target, abbattuti i quali si passera al boss, abbattuto il quale si passerà al livello successivo. La prospettiva è in prima persona e la grafica totalmente poligonale, senza uno straccio di texture (io amo questa cosa) e con qualche oggetto addirittura in wireframe, cosa che alla fine può rievocare il leggendario Starwing (o Star Fox, che dir si voglia) per SNES, uscito peraltro l'anno prima.
I livelli nei quali il nostro mech si aggira hanno una semplice pianta rettangolare delimitata da mura invisibili e non sono particolarmente grandi, ma i nemici sono numerosi, si rigenerano continuamente e possono arrivare da ogni direzione. Possono essere abbattuti usando una serie di armi, disponibili subito o droppate dai nemici eliminati; le armi hanno fondamentalmente proiettili infiniti, ma un aspetto piuttosto originale è che il loro utilizzo è subordinato ad una barra di energia che si svuota tanto più rapidamente quanto più rapidamente spariamo, e che si ricarica (non troppo velocemente) quando non stiamo sparando: ergo, tenere premuto perennemente il tasto di fuoco è una PESSIMA idea, i nostri cannoni devono "respirare". Quest'idea, in qualche modo già vista in R-type, viene direttamente da Gamma Planet e non sarà mantenuta nei Jumping Flash. Sarà un'altra peculiare caratteristica invece a proseguire in JS, quella del salto multiplo: ovvero, se il mach si trova in aria in seguito ad un salto può saltare di nuovo (per un massimo di due volte) per arrivare più in alto; dopo il secondo la visuale si abbassa automaticamente in modo da farci vedere il terreno e capire dove precipiteremo. Se finiremo su un nemico tanto meglio, si possono ammazzare anche a pestoni! Per difendersi dai colpi avversari possiamo nasconderci dietro i numerosi pilastri e colonne sparsi per il terreno; ogni colpo subito abbassa la resistenza del mech, indicata dalla barra "shield", e quando questa arriva a zero parte una vita. Dopo tre vite è game over.
Un secondo tipo di livelli (meno numerosi) ricalca molto da vicino il già citato Starwing. La visuale è sempre in prima persona ma non controlliamo il mezzo, che in questi stage vola per i fatti propri, bensì solo il mirino per abbattere i nemici che ci si parano davanti.
La meccanica di gioco di GS è parecchio confusionaria. Il ritmo è piuttosto elevato e la grafica di non facile lettura, anche perchè manca del tutto una mappa degna di questo nome e l'hud di gioco ha un radar limitatissimo. Purtroppo GS supporta solo joypad a due tasti, ergo: con uno si spara, con l'altro si salta, premendoli entrambi si attiva il menu o si alza/abbassa lo sguardo; in questi ultimi due casi, per decidere se aprire il menu o cambiare la visuale, il gioco valuta se, al momento della pressione dei tasti, era contemporaneamente premuto un tasto direzionale (quindi viene cambiata la visuale) o no (e allora si apre il menu). In fasi di gioco abbastanza concitate rendersi conto di queste combinazioni è tutto fuorchè pratico, anche perchè i tasti direzionali, servendo soprattutto a muovere il mech (ovviamente), sono premuti praticamente sempre, e la cosa finisce puntualmente per interferire con la doppia pressione dei tasti. Ahimè, è una falla di giocabilità piuttosto grave che mina un gioco interessantissimo. La cosa verrà risolta in JS sia perchè la Play di tasti ne ha una decina, sia perchè il gioco stesso ha ritmi assai più blandi.
Più o meno è tutto qua. Jumping Flash in occidente non ha ricevuto il successo che meritava, così dubito che Geograph Seal avrebbe potuto giocarsi le sue chance; ma si tratta comunque di un titolo pieno di buone idee e molto valido soprattutto tecnicamente (anche le musiche sono azzeccate). Scelte meno miopi sui controlli avrebbero potuto rendero infinitamente più giocabile e, in ultima analisi, divertente. Merita comunque un giro, così come i Jumping Flash e, se proprio siete curiosi, Gamma Planet.
JF2 è il seguito di un gioco di cui al momento non mi sovviene il nome. Entrambi sono stati prodotti da una softhouse giapponese poco nota in occidente chiamata Exact, che un giorno sarebbe stata assorbita dalla Sony; nei suoi anni da indipendente però ebbe modo di secernere qualche simpatico giocattolo per Sharp X68000 (mai usciti dal Giappone nè il computer nè tantomeno i giochi). Tra questi troviamo Geograph Seal, uscito nel 1994, da cui i JF si discosteranno ben poco.
Geograph Seal dunque. Allora, sostanzialmente GS prende le mosse da un oscuro prodotto a nome Gamma Planet, uscito sempre per X68k nel 1989 dalla altrettanto oscura software house Compac (almeno così parrebbe). Gamma Planet era una sorta di FPS ante-litteram con molti prestiti dal presitorico Battlezone della Atari (in primis la grafica vettoriale). Cinque anni dopo Exact riprende da GP quasi tutto, sostituisce vettori con poligoni, aumenta la velocità e tira fuori Geograph Seal.
In sostanza GS ci vede alla guida di un mech che deve aggirarsi per livelli irti di ostacoli e nemici allo scopo di distruggere una serie di target, abbattuti i quali si passera al boss, abbattuto il quale si passerà al livello successivo. La prospettiva è in prima persona e la grafica totalmente poligonale, senza uno straccio di texture (io amo questa cosa) e con qualche oggetto addirittura in wireframe, cosa che alla fine può rievocare il leggendario Starwing (o Star Fox, che dir si voglia) per SNES, uscito peraltro l'anno prima.
I livelli nei quali il nostro mech si aggira hanno una semplice pianta rettangolare delimitata da mura invisibili e non sono particolarmente grandi, ma i nemici sono numerosi, si rigenerano continuamente e possono arrivare da ogni direzione. Possono essere abbattuti usando una serie di armi, disponibili subito o droppate dai nemici eliminati; le armi hanno fondamentalmente proiettili infiniti, ma un aspetto piuttosto originale è che il loro utilizzo è subordinato ad una barra di energia che si svuota tanto più rapidamente quanto più rapidamente spariamo, e che si ricarica (non troppo velocemente) quando non stiamo sparando: ergo, tenere premuto perennemente il tasto di fuoco è una PESSIMA idea, i nostri cannoni devono "respirare". Quest'idea, in qualche modo già vista in R-type, viene direttamente da Gamma Planet e non sarà mantenuta nei Jumping Flash. Sarà un'altra peculiare caratteristica invece a proseguire in JS, quella del salto multiplo: ovvero, se il mach si trova in aria in seguito ad un salto può saltare di nuovo (per un massimo di due volte) per arrivare più in alto; dopo il secondo la visuale si abbassa automaticamente in modo da farci vedere il terreno e capire dove precipiteremo. Se finiremo su un nemico tanto meglio, si possono ammazzare anche a pestoni! Per difendersi dai colpi avversari possiamo nasconderci dietro i numerosi pilastri e colonne sparsi per il terreno; ogni colpo subito abbassa la resistenza del mech, indicata dalla barra "shield", e quando questa arriva a zero parte una vita. Dopo tre vite è game over.
Un secondo tipo di livelli (meno numerosi) ricalca molto da vicino il già citato Starwing. La visuale è sempre in prima persona ma non controlliamo il mezzo, che in questi stage vola per i fatti propri, bensì solo il mirino per abbattere i nemici che ci si parano davanti.
La meccanica di gioco di GS è parecchio confusionaria. Il ritmo è piuttosto elevato e la grafica di non facile lettura, anche perchè manca del tutto una mappa degna di questo nome e l'hud di gioco ha un radar limitatissimo. Purtroppo GS supporta solo joypad a due tasti, ergo: con uno si spara, con l'altro si salta, premendoli entrambi si attiva il menu o si alza/abbassa lo sguardo; in questi ultimi due casi, per decidere se aprire il menu o cambiare la visuale, il gioco valuta se, al momento della pressione dei tasti, era contemporaneamente premuto un tasto direzionale (quindi viene cambiata la visuale) o no (e allora si apre il menu). In fasi di gioco abbastanza concitate rendersi conto di queste combinazioni è tutto fuorchè pratico, anche perchè i tasti direzionali, servendo soprattutto a muovere il mech (ovviamente), sono premuti praticamente sempre, e la cosa finisce puntualmente per interferire con la doppia pressione dei tasti. Ahimè, è una falla di giocabilità piuttosto grave che mina un gioco interessantissimo. La cosa verrà risolta in JS sia perchè la Play di tasti ne ha una decina, sia perchè il gioco stesso ha ritmi assai più blandi.
Più o meno è tutto qua. Jumping Flash in occidente non ha ricevuto il successo che meritava, così dubito che Geograph Seal avrebbe potuto giocarsi le sue chance; ma si tratta comunque di un titolo pieno di buone idee e molto valido soprattutto tecnicamente (anche le musiche sono azzeccate). Scelte meno miopi sui controlli avrebbero potuto rendero infinitamente più giocabile e, in ultima analisi, divertente. Merita comunque un giro, così come i Jumping Flash e, se proprio siete curiosi, Gamma Planet.
sabato 26 settembre 2015
Sügisball (2007)
Sügisball (Ballo d'autunno) è un film estone del 2007, girato da Veiko Õunpuu, apparentemente uno dei più interessanti registi estoni contemporanei. Ha partecipato al Festival di Venezia dove ha vinto il premio Orizzonti.
Film lunghetto -sfiora le due ore- e piuttosto lento, ispirato ad un libro di Mati Unt (purtroppo inedito in Italia, pare) incentrato sul tema (originalissssssssssimo) della solitudine e dell'incapacità di comunicare dell'uomo moderno; cinque storie di ordinaria frustrazione che a tratti si incrociano brevemente. Mati (Rain Tolk, il sosia baltico di Massimo Coppola) è uno scrittore lasciato dalla sua ragazza che non riesce ad accettare la cosa; Theo (Taavi Eelmaa) è un portiere d'albergo sessuomane insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro; Kaski (Sulevi Peltola) è un barbiere finlandese che non si sente accettato dall'Estonia; Laura (Maarja Jakobson) fa l'operaia, è madre di una bambina ed è separata da un marito ubriacone che la perseguita; l'architetto Maurer (Juhan Ulfsak) e sua moglie Ulvi (Tiina Tauraite) attraversano una crisi esistenziale e matrimoniale. Sullo sfondo, una Tallinn livida e lugubre, una periferia di fabbricati ereditati dall'URSS1. Personaggi tristi e silenziosi che fanno cose strane: Mati pedina la sua ex (la bella Mirtel Pohla) e si ubriaca, Maurer insulta senza motivo sua moglie, Theo scopa con tutte e forse non sa perché, Laura si droga di telenovelas, sua figlia neanche decenne sta sul balcone a prendersi gelida pioggia, Kaski si comporta da perfetto pedofilo senza neanche accorgersene. Sügisball non vuole essere tragico o depressivo, quanto piuttosto opprimente e disilluso; sprazzi di ironia alleggeriscono qua e là la tensione (a volte un po' gratuitamente, come nel caso di Mati alle prese con un numero da avanspettacolo mentre acquista una rivista porno). Saranno le ultime parole di Mati a chiarire -se mai ce ne fosse il bisogno- ciò che la pellicola vuole essere: un ulteriore, ennesimo tassello nel mosaico sterminato delle opere che provano ad indagare sul senso della vita.
Come il vaso di Pandora, dopo tanto soffrire il film si chiude con piccole note di speranza. Riservata, però, non a tutti.
In sintesi un film più che discreto. Bella la fotografia, incentrata sulla grigia periferia di una metropoli del lontano nord (molti accenni ad una architettura quasi à la 19842), interessante la colonna sonora con anche un paio di bei recuperi dalla discografia estone e soprattutto la presenza in tre occasioni di frammenti della superba Moya dei Godspeed you! Black Emperor3 (e questo sarebbe già un buon motivo per incensare questo film).
Al di fuori dell'Estonia Sügisball ha avuto purtroppo scarsissima diffusone e non esiste un adattamento in italiano (o almeno io non l'ho trovato).
[1] forse vale la pena di ricordare che i popoli baltici sono quelli che più malvolentieri hanno sofferto la dominazione sovietica.
[2] ma tutto il mondo è paese: impossibile non notare somiglianze dei palazzi con la Buenos Aires di Garage Olimpo, ad esempio, e in certe scene solo la presenza del colore attenua la somiglianza con la Palermo di Cinico TV.
[3] anche se nei titoli di coda viene erroneamente indicata come Static (che è invece tutt'altro pezzo, sebbene sempre dei GY!BE).
Film lunghetto -sfiora le due ore- e piuttosto lento, ispirato ad un libro di Mati Unt (purtroppo inedito in Italia, pare) incentrato sul tema (originalissssssssssimo) della solitudine e dell'incapacità di comunicare dell'uomo moderno; cinque storie di ordinaria frustrazione che a tratti si incrociano brevemente. Mati (Rain Tolk, il sosia baltico di Massimo Coppola) è uno scrittore lasciato dalla sua ragazza che non riesce ad accettare la cosa; Theo (Taavi Eelmaa) è un portiere d'albergo sessuomane insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro; Kaski (Sulevi Peltola) è un barbiere finlandese che non si sente accettato dall'Estonia; Laura (Maarja Jakobson) fa l'operaia, è madre di una bambina ed è separata da un marito ubriacone che la perseguita; l'architetto Maurer (Juhan Ulfsak) e sua moglie Ulvi (Tiina Tauraite) attraversano una crisi esistenziale e matrimoniale. Sullo sfondo, una Tallinn livida e lugubre, una periferia di fabbricati ereditati dall'URSS1. Personaggi tristi e silenziosi che fanno cose strane: Mati pedina la sua ex (la bella Mirtel Pohla) e si ubriaca, Maurer insulta senza motivo sua moglie, Theo scopa con tutte e forse non sa perché, Laura si droga di telenovelas, sua figlia neanche decenne sta sul balcone a prendersi gelida pioggia, Kaski si comporta da perfetto pedofilo senza neanche accorgersene. Sügisball non vuole essere tragico o depressivo, quanto piuttosto opprimente e disilluso; sprazzi di ironia alleggeriscono qua e là la tensione (a volte un po' gratuitamente, come nel caso di Mati alle prese con un numero da avanspettacolo mentre acquista una rivista porno). Saranno le ultime parole di Mati a chiarire -se mai ce ne fosse il bisogno- ciò che la pellicola vuole essere: un ulteriore, ennesimo tassello nel mosaico sterminato delle opere che provano ad indagare sul senso della vita.
Come il vaso di Pandora, dopo tanto soffrire il film si chiude con piccole note di speranza. Riservata, però, non a tutti.
In sintesi un film più che discreto. Bella la fotografia, incentrata sulla grigia periferia di una metropoli del lontano nord (molti accenni ad una architettura quasi à la 19842), interessante la colonna sonora con anche un paio di bei recuperi dalla discografia estone e soprattutto la presenza in tre occasioni di frammenti della superba Moya dei Godspeed you! Black Emperor3 (e questo sarebbe già un buon motivo per incensare questo film).
Al di fuori dell'Estonia Sügisball ha avuto purtroppo scarsissima diffusone e non esiste un adattamento in italiano (o almeno io non l'ho trovato).
questo film è dedicato a tutti gli uomini con l'animo gentile e il fegato debole
che stanno soli nella notte,
in mutande.
che stanno soli nella notte,
in mutande.
[1] forse vale la pena di ricordare che i popoli baltici sono quelli che più malvolentieri hanno sofferto la dominazione sovietica.
[2] ma tutto il mondo è paese: impossibile non notare somiglianze dei palazzi con la Buenos Aires di Garage Olimpo, ad esempio, e in certe scene solo la presenza del colore attenua la somiglianza con la Palermo di Cinico TV.
[3] anche se nei titoli di coda viene erroneamente indicata come Static (che è invece tutt'altro pezzo, sebbene sempre dei GY!BE).
sabato 19 settembre 2015
Brataccas (ST/Amiga, 1986)
Personalmente non ho mai amato eccessivamente la Psygnosis. Lo ammetto, un po' sarà stato per l'imprinting dovuto al fatto che il loro primo gioco che provato è stato l'orripilante Rascal (platform 3D per Playstation), quindi sono prevenuto; però le attribuisco il demerito di essere stata una delle prime softhouse ad avere avviato il trend "più grafica, meno gameplay": dite quello che volete, ma a me i SotB (giocabilisticamente parlando) sono sempre sembrati poca roba.
L'inizio della storia di Psygnosis era stata più promettente, con l'ambiziosissimo e ormai semidimenticato titolo d'esordio Brataccas. Progettato inizialmente per Sinclair QL (la quadricromia bianco/nero/rosso/verde del gioco credo sia un residuo vestigiale di quell'origine), venne poi passato su altre piattaforme m68k: prima ST, poi Amiga e Mac. Brataccas vede il nostro avatar, lo scienziato Kyle, aggirarsi per un mondo ostile e distopico che lo crede un fuorilegge, e ne quale deve cercare prove che dimostrino la sua innocenza. Brataccas ha il suo punto di forza nell'enorme ambientazione, il vastissimo asteroide omonimo (anche se le location sono tutte degli interni, come se fosse un unico sterminato edificio costruito sul pianetino...) popolato da gente che vive la propria vita e con la quale interagire (a proprio rischio e pericolo). Una sorta di avventura/gioco di ruolo cyberpunk che getta i semi per i free-roaming di tanti anni dopo, Brataccas avrebbe potuto avere un buon successo, ed è un peccato che non sia stato così; il motivo non è un mistero: 1. il sistema di controllo è IMPOSSIBILE -Kyle non fa quello che gli si dice neanche a piangere in turco-, 2. bug come se piovesse.
Eh, non tutte le ciambelle riescono col buco.
L'inizio della storia di Psygnosis era stata più promettente, con l'ambiziosissimo e ormai semidimenticato titolo d'esordio Brataccas. Progettato inizialmente per Sinclair QL (la quadricromia bianco/nero/rosso/verde del gioco credo sia un residuo vestigiale di quell'origine), venne poi passato su altre piattaforme m68k: prima ST, poi Amiga e Mac. Brataccas vede il nostro avatar, lo scienziato Kyle, aggirarsi per un mondo ostile e distopico che lo crede un fuorilegge, e ne quale deve cercare prove che dimostrino la sua innocenza. Brataccas ha il suo punto di forza nell'enorme ambientazione, il vastissimo asteroide omonimo (anche se le location sono tutte degli interni, come se fosse un unico sterminato edificio costruito sul pianetino...) popolato da gente che vive la propria vita e con la quale interagire (a proprio rischio e pericolo). Una sorta di avventura/gioco di ruolo cyberpunk che getta i semi per i free-roaming di tanti anni dopo, Brataccas avrebbe potuto avere un buon successo, ed è un peccato che non sia stato così; il motivo non è un mistero: 1. il sistema di controllo è IMPOSSIBILE -Kyle non fa quello che gli si dice neanche a piangere in turco-, 2. bug come se piovesse.
Eh, non tutte le ciambelle riescono col buco.
sabato 12 settembre 2015
Idaho Transfer (1973)
Girato e rilasciato nel 1973, e dimenticato quasi universalmente già nel 1974, Idaho Transfer è il secondo lavoro (di tre) di Peter Fonda come regista. E di gran lunga il più sfortunato. E' quasi sorprendente come, sepolto nel passato di un uomo di cinema di buona fama (membro dell'onorata famiglia Fonda! e all'epoca reduce da pochissimo dal successo di Easy Rider), ci sia un oggetto così strano e obliato. Eppure. I.T., noto anche come Deranged nel Regno Unito (probabilmente si provò a farlo passare per un horror) e mai distribuito in Italia, è un film di fantascienza low-budget la cui genesi affonda nei sentimenti pro-ambientalistici di Fonda. La compagnia che doveva occuparsi della distribuzione fallì dopo una settimana di programmazione del film nelle sale, il che tagliò di netto le gambe alle sorti della pellicola. Solo 15 anni dopo, nel 1988, si ebbe quantomeno una pubblicazione su VHS; la sorte non fu molto migliore. Da allora la fama di I.T. vivacchia a stento solo fra pochi appassionati di SF.
Qual è la trama? Allora: in una struttura -finanziata dal governo e presumibilmente top-secret- nell'Idaho meridionale un gruppo di ricercatori, tra cui svariati giovanissimi (tutti under 20), inventa un sistema che permette il teletrasporto di persone tra due macchinari gemelli, uno posto nella struttura e l'altro in una zona all'aperto sempre nell'Idaho del sud. Si accorgeranno ben presto di un interessante side-effect non preventivato: lo spostamento è anche temporale, di 56 anni nel futuro (l'arrivo sarebbe quindi nel 2029). I viaggiatori (che sono tutti giovani perché -altro side-effect- chi ha più di 20 anni muore poco dopo il viaggio per un'inspiegabile emoraggia renale) fronteggiano così un mondo futuro spopolato e triste, evidentemente modificato da qualche catastrofe imprecisata avvenuta in un momento sconosciuto durante quegli 11 lustri che li separano dalla data di partenza. Nel tentativo di capire cosa sia successo gli scienziati cominciano a raccogliere dati e a studiarli nel presente (perché il viaggio è possibile anche nell'altro senso).
Tutta questa è in realtà una premessa: di questi fatti non si vede nulla o quasi, ma sono esplicitati nelle prime fasi del film, perlopiù durante un dialogo tra due protagoniste. La storia vera e propria si concentra sulla sedicenne Karen Braden e una dozzina di altri studiosi, di poco più anziani, che si trasferiscono in pianta stabile nel 2029 dopo la decisione improvvisa del governo di chiudere il progetto. Nel desolato pianeta futuro, il manipolo di transfughi si dedica a fare le uniche due cose possibili, ovvero tentare di sopravvivere e cercare superstiti. La vicenda poi prende una brutta piega, ma ne parlerò più avanti.
Grossomodo la storia si può dividere in tre parti:
1. Spiegazione di chi sono e che fanno questi tizi. A svelare tutto è soprattuto Isa, primo personaggio ad apparire sullo schermo, che arruola la sorellina Karen, figura centrale della pellicola, che non vede da lungo tempo. Isa istrusce Karen sul significato e lo scopo della missione, ed è durante i loro dialoghi che scopriamo i principali retroscena dell'esperimento. Questa prima parte termina con la decisione del governo di chiudere tutto e spegnere il macchinario, e con la conseguente fuga nel futuro dei giovani studiosi.
2. La sopravvivenza dei ventenni nel lontano futuro e la loro ricerca di superstiti. E' la parte più lunga e statica del film; la location è il Craters of the Moon National Monument and Preserve, nell'Idaho del sud, e le ambientazioni sono assai suggestive; ma nella monotonia dell'arido paesaggio -seppur affascinante- riecheggia quella delle fasi di esplorazione in cui è bassissima la densità degli accadimenti. Solo una sopravvissuta viene trovata, regredita ad uno stato di idiozia.
3. Si torna a vedere qualcosa nell'ultima parte, che comincia quando Karen decide di lasciare il gruppo di esploratori e di tornare al campo base, dove era rimasto un piccolo manipolo di tre colleghi tra i quali quello di cui è innamorata. Qui viene aggredita da una delle compagne, che è misteriosamente impazzita, ha ucciso gli altri due compagni ed ora è pronta a fare lo stesso con lei. Karen si salva miracolosamente calandosi nel pozzo dove è custodita la macchina del tempo. Questa, in teoria ormai inutile perchè spenta nel presente, è stranamente accesa; Karen, che non ha altre vie d'uscita, entra nel macchinario e torna nel '73. Qui terrorizza un tecnico che stava lavorando (e non viene spiegato perchè) sul marchingegno e la vede apparire dal nulla, poi smanaccia i controlli -dei quali non conosce presumibilmente nulla- per cercare di tornare in un punto del tempo precedente al disastro nel campo base (potendo quindi salvare il suo amore); infine riparte per il futuro dove... ve lo dirò dopo.
Idaho Transfer è strano; gli statunitensi direbbero probabilmente weird. E lo è su più livelli.
Già il cast rappresenta un bell'enigma. E' decisamente piccolo (25 nomi in tutto, mi pare) e composto quasi totalmente, come si è visto, da teenager che devono cercare di passare per studiosi: tra i pochi attori adulti solo uno (il recentemente scomparso Ted D'Arms, qui al debutto) ha un ruolo non troppo marginale, quello di capo del progetto e padre di Karen e Isa Braden. Spicca poi il fatto che oltre a D'Arms solo altri quattro attori abbiano qualche altro titolo nel curriculum: tutti gli altri non si erano mai visti prima e non si vedranno mai più in futuro. Di questi quattro, tre hanno preso parte solo a un altro film oltre I.T. La carriera più dignitosa l'ha avuta uno degli adolescenti, che altri non è che l'allora sconosciuto Keith Carradine, dell'onorata famiglia Carradine (e nella fattispecie fratellastro di David, il Bill di Kill Bill).
Il perché il film si regga quasi completamente sulle spalle di giovanissimi dilettanti è probabilmente spiegabile con il tentativo di mantenere bassi i costi, ma possibile che Fonda dovesse tenere d'occhio il portafoglio? Mah. Fatto sta che le bizzarrie proseguono.
Le scenografie sono peculiari. Gli esterni, come detto, sono girati nel sud dell'Idaho che è di una bellezza e di una monotonia sconvolgenti: terreno roccioso quasi lunare (soprattutto nella zona del campo base) e sterminate praterie praticamente piatte e vuote. Nella parte centrale del film si contano la bellezza di UNA auto e UN treno (entrambi con un loro macabro segreto) oltre che UNA casa (o forse ricordo male e non c'è nemmeno quella). E questo su vari chilometri quadrati di terreno esplorato. Gli interni sono limitati a un paio di anonimi uffici e all'inquietante stanza che contiene la macchina del tempo, scenografia collocata probabilmente in qualche magazzino abbandonato nella periferia di Boise; la stanza (e i corridoi all'esterno) rendono comunque efficacemente una certa aria di desolazione, soprattutto alla luce della bassa qualità dell'audio e del video del film (a proposito dell'audio: scarso quantitativamente, ma con delle belle idee).
Il finale del film ha spaccato in due la platea: c'è chi lo trova geniale e chi (come me) terribile. Si tratta di spoilerare, ma credo di poter correre il rischio.
Avevamo lasciato Karen mentre tentava di tornare nel futuro. Effettivamente ci ritorna, ma al campo base non c'è traccia di vita. Comincia a girare un po' finchè non si accascia esausta lungo una strada. Dopo poco arriva un'automobile piuttosto futuristica e diventa ormai chiaro che Karen ha impostato il macchinario per mandarla ancora più avanti nel tempo. L'auto si ferma alla sua altezza, ne scende un uomo che la raccoglie e la chiude nel bagagliaio, per poi tornare al volante e ripartire. E si ode Karen prorompere in un urlo lancinante. Chiusura sull'interno dell'auto, dove l'uomo parla con una donna e una bambina di cose che non sono riuscito a capire ma che verterebbero su questioni ambientali.
Il finale è stato apprezzato da non molti, e io rientro nell'altro gruppo. I.T. non è un capolavoro, ma avrebbe senz'altro meritato maggior fortuna e un finale più degno di questo che pare attaccato con lo sputo (finiti i soldi, forse?). Non è chiara la sorte della povera Karen, ma la teoria con più consenso prevede che una ristretta elite di umani tecnologicamente avanzati usi i rari "selvaggi" come carburante per le proprie macchine. Il vero problema di questo finale è che l'atmosfera cozza contro tutto quello che il film ha costruito in precedenza. Guadagna qualche punto comunque per l'inquietantissimo "esto perpetua" (che è anche, ma non solo, il motto dell'Idaho) in fondo ai titoli di coda.
Idaho Transfer è un buon film, consigliabile a chiunque apprezzi le "weirdate" e non si lasci spaventare troppo dai film a basso ritmo. Per gli appassionati dei futuri con atmosfere postatomiche (più o meno) questo lavoro dovrebbe essere considerato un cult minore. Le ragazze sono molto carine, valide le scenografie e le musiche. Il recupero non è difficile, dovrebbe persino esserci intero su youtube. Opossum approved, buona visione.
martedì 8 settembre 2015
Running (Atari Falcon, 1997)
Nel 1992 Wolfstein 3D fece da battistrada per l'inizio dell'ancora fruttifera era dei First Person Shooter (che IMHO inizia ufficialmente l'anno dopo con Doom). Indirettamente Wolf3D e Doom diedero quella che ritengo essere la definitiva spallata agli home computer (Amiga, ST, Archimedes, AppleII, Mac68k), che cominciavano a mostrare qualche ruga e che si rivelarono incapaci di combattere alla pari contro gli x86 sul terreno del treddì. Nonostante questo si provò -perlopiù su Amiga- a prendere qualche contromisura; il tutto si rivelò inefficace e tardivo, e ben presto i pochi shooter 3D non-Wintel divennero mere curiosità partorite nei tardi '90 da hacker nostalgici1.
Considerando anche le conversioni da PC, gli FPS per Amy mi pare siano circa una quarantina (forse ne parlerò un po' in futuro), sulle macchine TOS (Atari ST/TT/Falcon) dovrebbero essercene tra gli 8 e i 12, quelli Mac non lo so (ne conosco solo tre, ma non ho mai approfondito), per Archie/RiscPC ce n'è uno solo (e anche quello meriterebbe di essere trattato qui).
Il più avanzato FPS proprietario per Atari Falcon2 è uscito nel 1997: si chiama Running (nome così generico da rendere un incubo la ricerca di informazioni) ed è stato scritto da un quartetto di coder tedeschi. Immaginatevi che razza di gente può mettersi lì a dire "Visto che non abbiamo niente di meglio da fare, perché non scriviamo uno shooter 3D per una macchina uscita 4 anni fa e nata già vecchia, posseduta forse da un migliaio di disperati in tutto il mondo, con un processore Motorola 030 e un paio di mega di RAM?" (Vi ricordo che siamo negli stessi anni in cui si affermano i PC con Pentium, Quake è già uscito, il BUILD è già vecchio, giochi come Quake 2 e Unreal sono in odore di pubblicazione). Detto fatto, ecco a voi Running.
Ah, no, scusate, questo è il sistema operativo del Falcon. Sembra proprio Windows 95, vero?
Immagini tratte dalla prima demo.
(Come dite? Il mostro e la saracinesca vi sembrano familiari? Ma no, è un'impressione...)
Fortunatamente il gioco definitivo ha una personalità più... indipendente
I nuovi nemici hanno una bellissima cera.
Che burloni questi tedeschi!
Sono morto, ucciso da quella chiazza biancastra davanti a me: quello che sembra un vecchietto con una tunica (o almeno così mi era sembrato appena ne ho visto uno la prima volta) è in realtà uno scienziato con una tuta antiradiazioni. Poco fuori dall'inquadratura sulla sinistra c'è un civile. CAZZO CI FA UN CIVILE IN UNA BASE MILITARE? PERALTRO CON MATERIALE NUCLEARE? Bella l'idea della GUI di Windows, appena è apparsa ho avuto un senso di straniamento pazzesco.
Killed in action. Che fine ingloriosa. E che 3D evoluto.
Sapete che vi dico? Non so come giri su Falcon liscio, ma su macchine accelerate (con schede CT60/CT63) è un gioco che -date le premesse- si difende pure bene!
Bonus: un video di gameplay. Buona visione.
1 negli stessi anni i prodotti Wintel erano frattanto piagati da un'inverosimile quantità di trashate inqualificabili. A mio modesto avviso, FPS e picchiaduro sono i generi più proni al trash dell'intero mondo dei videogiochi. Gli anni '90 ci hanno regalato dei veri e propri crimini contro l'umanità.
2 il Falcon è stato l'ultimo discendente ufficiale della linea ST, più o meno come l'Amiga 1200 è stato l'ultimo Amiga classico. Arrivò sul mercato nel '93, già fuori tempo massimo per il mercato degli home computer, e venne in breve ritirato dopo che l'Atari fece la SAGGISSIMA scelta di concentrarsi sul Linx e sul Jaguar. Fondamentalmente è vero, insistere nel mondo dei computer ormai già soffocato dal dominio di Gates sarebbe stato un suicidio: aveva più senso gettarsi nell'ancora vivibile settore console; ma magari farlo con cognizione di causa non avrebbe guastato...
Il più avanzato FPS proprietario per Atari Falcon2 è uscito nel 1997: si chiama Running (nome così generico da rendere un incubo la ricerca di informazioni) ed è stato scritto da un quartetto di coder tedeschi. Immaginatevi che razza di gente può mettersi lì a dire "Visto che non abbiamo niente di meglio da fare, perché non scriviamo uno shooter 3D per una macchina uscita 4 anni fa e nata già vecchia, posseduta forse da un migliaio di disperati in tutto il mondo, con un processore Motorola 030 e un paio di mega di RAM?" (Vi ricordo che siamo negli stessi anni in cui si affermano i PC con Pentium, Quake è già uscito, il BUILD è già vecchio, giochi come Quake 2 e Unreal sono in odore di pubblicazione). Detto fatto, ecco a voi Running.
Ah, no, scusate, questo è il sistema operativo del Falcon. Sembra proprio Windows 95, vero?
Immagini tratte dalla prima demo.
(Come dite? Il mostro e la saracinesca vi sembrano familiari? Ma no, è un'impressione...)
Fortunatamente il gioco definitivo ha una personalità più... indipendente
I nuovi nemici hanno una bellissima cera.
Che burloni questi tedeschi!
Sono morto, ucciso da quella chiazza biancastra davanti a me: quello che sembra un vecchietto con una tunica (o almeno così mi era sembrato appena ne ho visto uno la prima volta) è in realtà uno scienziato con una tuta antiradiazioni. Poco fuori dall'inquadratura sulla sinistra c'è un civile. CAZZO CI FA UN CIVILE IN UNA BASE MILITARE? PERALTRO CON MATERIALE NUCLEARE? Bella l'idea della GUI di Windows, appena è apparsa ho avuto un senso di straniamento pazzesco.
Killed in action. Che fine ingloriosa. E che 3D evoluto.
Sapete che vi dico? Non so come giri su Falcon liscio, ma su macchine accelerate (con schede CT60/CT63) è un gioco che -date le premesse- si difende pure bene!
Bonus: un video di gameplay. Buona visione.
1 negli stessi anni i prodotti Wintel erano frattanto piagati da un'inverosimile quantità di trashate inqualificabili. A mio modesto avviso, FPS e picchiaduro sono i generi più proni al trash dell'intero mondo dei videogiochi. Gli anni '90 ci hanno regalato dei veri e propri crimini contro l'umanità.
2 il Falcon è stato l'ultimo discendente ufficiale della linea ST, più o meno come l'Amiga 1200 è stato l'ultimo Amiga classico. Arrivò sul mercato nel '93, già fuori tempo massimo per il mercato degli home computer, e venne in breve ritirato dopo che l'Atari fece la SAGGISSIMA scelta di concentrarsi sul Linx e sul Jaguar. Fondamentalmente è vero, insistere nel mondo dei computer ormai già soffocato dal dominio di Gates sarebbe stato un suicidio: aveva più senso gettarsi nell'ancora vivibile settore console; ma magari farlo con cognizione di causa non avrebbe guastato...
La vita, l'universo e il colour clash
Un blog superfluo su film e videogame di scarso rilievo. Update settimanali, finché riesco, poi si vedrà.
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