Un prete in groppa un cavallo si inerpica per una dissestata mulattiera, in mezzo al nulla. Solo rocce, cespugli e bassi alberi lo circondano nel suo viaggio, fino all'arrivo in un paesino di piccole e povere case. È con queste bucoliche inquadrature che si apre O padre e a moça (Il prete e la ragazza), anno di grazia 1965 (anche se il film arriverà nei cinema l'anno dopo). Scene che potrebbero essere benissimo neorealiste, invece siamo in pieno Cinema Nôvo.
Qualche nome. Il film nasce da uno scritto del '62 che ha quasi lo stesso titolo (O padre, a moça), un poema di Carlos Drummond de Andrade; il regista si chiama Joaquim Pedro de Andrade (non c'è parentela, da quel che ho capito), ed è stato un esponente di spicco del CN: O padre è il suo primo lungometraggio, mentre il suo magnum opus sarebbe stato il successivo Macunaíma, tratto dall'omonimo bellissimo libro realizzato da un ennesimo de Andrade, Mario. I luoghi delle riprese si trovano nel Minas Gerais, in un decaduto paesino noto col complicato nome di São Gonçalo do Rio das Pedras e nei suoi dintorni. Poi ci sono gli attori: Helena Ignez, Paulo José, Mario Lago, Fauzi Arap e… basta. Solo quattro sono gli attori di questo film, perlomeno quelli di peso; un manipolo di gente mineira si occupa di rimpinguare le fila del cast, ma si tratta di comparse prive anche del minimo dialogo.
Il prete -il padre- che risale il tratturo è Paulo José, ventottenne attore teatrale al suo debutto cinematografico assoluto. Come nelle migliori tradizioni, José non doveva fare questo film: si ritrovò all'ultimo momento a rimpiazzare un collega resosi indisponibile. Non so se il film ci abbia perso, ma ne dubit: di sicuro José, che ha un'aria vagamente nerimarcoreiana, non sfigura. Anzi. Coprotagonista è la leggendaria Helena Ignez, Mariana nel film, all'epoca ventitreenne e, secondo me, bella come non sarebbe mai più stata. Mario Lago (Fortunato, possidente locale) e Fauzi Arap (Vitorino, farmacista alcolizzato) completano il conto dei protagonisti.
O padre e a moça sostanzialmente si divide in due parti relativamente distinte. La prima è di stampo più propriamente neorealista: il prete (di cui non sapremo mai il nome) arriva al paese, mandato a chiamare per dare l'estrema unzione al morente parroco, padre Antonio. Si installa poi al suo posto e prende conoscenza della realtà locale: un paesino isolato e povero, che ha perso ogni traccia di un passato leggermente migliore che gli era garantito dalla presenza di diamanti. A permettere la sopravvivenza del posto è Fortunato, che gestisce un emporio/bar e commercia coi pochi diamanti che i cercatori locali riescono ancora a trovare. Tutti sono indebitati con Fortunato, che riesce così a mantenere il controllo del paese.
Col possidente vive una giovane ragazza, Mariana. È lei, la moça, il nodo centrale della vicenda. È cresciuta sin dall'infanzia presso Fortunato, che l'ha presa con sé dietro preghiera dello spiantato padre di lei, e tutti si aspettano che i due, nonostante la grande differenza di età, convolino a nozze; ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Mariana è irrequieta e fondamentalmente scontenta della vita che fa; São Gonçalo è un paese noioso, e Fortunato è gelosissimo e la tiene quasi reclusa. Sospetta forse che lei lo tradisca, forse proprio con padre Antonio, benché lei neghi, e ritiene che -poiché il nuovo prete ha confessato il vecchio- il nuovo arrivato sappia qualcosa che lui non sa. A confondere ancora di più le acque c'è Vitorino, che fa discorsi strani sulla moralità dei vivi e quella del prete morto (anche nel bel mezzo del funerale di quest'ultimo), e ha un rapporto non chiaro con Mariana; difficile interpretare il suo modo di fare, reso oscuro dai fumi dell'alcool del quale è costantemente ottenebrato.
Il nuovo prete sconvolge lentamente gli equilibri di São Gonçalo, e São Gonçalo sconvolge lentamente gli equilibri del prete. Dopo una serie di faccia a faccia con gli altri protagonisti, arriva alla conclusione che tutti gli mentono; in piena confusione morale fugge con Mariana, che lo considera quasi un messia venuto a strapparla dalla prigionia. Si apre qui la seconda parte del film, più marcatamente simbolica, che si concentra completamente sui due fuggiaschi, che ben presto devono affrontare le conseguenze della loro scelta. Sarà soprattutto il reverendo a dover guardare dentro sé stesso per domare la tempesta emotiva che il paesino gli ha scatenato dentro, e Mariana farà da catalizzatore per spingerlo verso la decisione finale, che concluderà gli eventi una volta per tutte.
Non un lavoro per chi cerca emozioni forti e suspance: O padre e a moça è un'opera dominata dai silenzi (spesso anche molto lunghi) e dai dialoghi pacati. Paulo José in particolare è straordinario e trasmette tutti i tormenti interiori del suo personaggio con un'abilità da attore consumato – il lignaggio del suo passato teatrale si fa sentire chiaramente; restano impresse soprattutto le performance della seconda parte del film. Non è un caso che de Andrade abbia voluto José come protagonista anche in Macunaíma. Non sfigurano gli altri tre attori. La Ignez, benché ancora piuttosto giovane, aveva già una discreta carriera alle spalle (nel Cinema Nôvo; sarebbero in futuro arrivati il “passaggio” verso il Marginal e la definitiva consacrazione): qui è, come già detto, veramente bella e con una faccia angelica che ben si adatta al suo ruolo, per certi versi ambiguo; Mario Lago, che interpreta fondamentalmente uno stronzo, è un'altra faccia che funziona; il Vitorino di Fauzi Arap ha un animo ancora più incrinato di quello del prete: un ruolo difficile e un po' estremo che Arap comunque seppe far suo con disinvoltura.
Sul lato tecnico c'è poco da dire: le difficoltà di fare cinema in Brasile, soprattutto in mezzo al nulla, creano una situazione tale per cui sembra di stare nel dopoguerra italiano: il risultato è che il film sembra di almeno 15 anni più vecchio. Oltretutto la lavorazione fu difficoltosa: si è già detto dell'attore ammalatosi, si aggiunga che tutta l'attrezzatura andava ricaricata di notte a chilometri di distanza, e che de Andrade si mise sovente nei guai con la dittatura all'epoca al governo in Brasile (gli ultimi dettagli del film furono sistemati col regista agli arresti). La fotografia (in un bel bianco e nero piuttosto sporco) fa vedere a volte cose intriganti, ma perlopiù fa semplicemente il suo dovere (e in due o tre casi inserisce strani fermi immagine, scelta poco felice). Lo stesso si può dire per la colonna sonora.
Ma si tratta in fondo di dettagli che contano poco rispetto al bilancio finale: O padre e a moça conta per la storia che vuole raccontare, e conta molto perché la storia è molto bella, e raccontata da bravissimi narratori. Concedete credito a quest'opera, che resta una perla della cinematografia brasileira, benché ingiustamente un po' dimenticata.
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