sabato 31 dicembre 2016

Satyrigame (C64)

Se la memoria non mi fa difetto (e di solito lo fa, ma diamo la cosa per buona), Satyrigame è il primo gioco in assoluto che abbia mai caricato sul mio primo Commodore 64, nel lontano ma non lontanissimo anno 2000. Ereditai, dal tizio che mi vendette il biscottone, una serie di cassette di varia natura e colore, con ovviamente in mezzo una nutrita schiera di ciarpame da edicola; e fu in mezzo a quest'ultima tipologia di supporti che mi imbattei in Satyrigame.
Né il computer né il supporto esistono più. Non sono più riuscito, nemmeno dopo qualche ricerca, a capire quale fosse la compilation da edicola col gioco. Nella lista di programmi contenuta nel supporto il secondo gioco aveva per succulento nome "Sfratto selvaggio"; e per via della grafica della copertina intuii erroneamente che la compilation si aprisse proprio con quest'ultimo. Caricai pertanto -e giocai- Satyrigame pensando che fosse Sfratto selvaggio, e solo in un secondo momento mi resi conto dello sbaglio (Sfratto selvaggio, di cui non trovo traccia in rete, si rivelò comunque una puttanata invereconda, forse scritta in BASIC. Cose che capitano).

Sproloqui storico-affettivi a parte, Satyrigame è un gioco di ignota paternità (si sa solo che è fuoriuscito dal Gruppo Editoriale Jackson) prodotto col SEUCK; anche l'anno di uscita è incerto, ma presumibilmente collocabile tra l'85 e l'87. All'atto pratico non è che un clone di Commando (visuale top-down e scrolling verso l'alto), con la peculiarità specifica di avere sprite presi di peso dalla tarda Prima Repubblica. Da qui il nome, che comunque è ingannevole, perché di satira manca ogni traccia (prendere Super Joe e la giungla per sostituirli con qualche caricatura politica e una stilizzatissima Roma notturna non basta per dare al giochino una profondità che non c'è e non potrebbe comunque esserci). Il gioco si risolve come tutti quelli del genere: il nostro alter-ego, Eugenio Scalfari (brr...), deve farsi strada verso la sede di Repubblica falciando a colpi di revolver tutti i segretari di partito che a quanto pare lo vogliono morto (alla faccia dei regimi alla Putin). Tra vari sparacchianti Andreotti, Craxi e De Michelis (e numerosi altri figuri di quel periodo), sarà necessario evitare anche sprite svolazzanti recanti i marchi di DC, MSI, PRI e compagnia brutta. Con un po' di manualità basteranno 5 minuti per arrivare alla sede del quotidiano.
Sinceramente: non c'è veramente nient'altro di cui parlare. La meccanica è elementare, il sonoro limitato a qualche SFX di ordinaria amministrazione e la longevità nulla - non c'è nemmeno un finale, perché una volta raggiunta Repubblica ci si può solo girare i pollici nel piazzale e per uscirne tocca resettare il biscottone -; la grafica, d'altro canto, benché pure lei basica (con uno scenario che sarebbe sembrato scarno pure su Atari 2600), è pulita, fluida e presenta caricature davvero ben disegnate: probabilmente il programmatore ci ha speso il 95% del tempo di sviluppo. Fate i vostri conti.

E poi basta. Sayonara.


sabato 22 ottobre 2016

[L'amore al tempo degli ottomani] Kosmos (2010)

Excursus d'autunno. Tra le tante peculiarità della poco decifrabile opera turca Kosmos (regia di Reha Erdem, protagonisti Sermet Yeşil e Türkü Turan), si cela una delle più belle e disfunzionali scene di sesso nella storia del Cinema.


sabato 1 ottobre 2016

Cyplix (Atari 2600, 2004)

Cyplix.
Mh.
Ok.
Allora, bisogna partire da lontanissimo e fare un giro semi-infinito. La storia parte da tale Skin Diver, giochino infimo come se ne sono visti a camionate sul 2600, uscito nel 1983. Autrice del gioco è la Sancho, sofware house di origini oscure (forse europea, forse taiwanese), che rilasciò una manciata di titoli in quel periodo prima sparire nel nulla: una storia già sentita. Comunque, Skin Diver fa la sua triste vita senza costrutto, venendo anche ripubblicato da altra gente (Froggo, Panda, Zellers) e con altri titoli (Sea Hunt, Scuba Diver)1. Tutto questo succede tra Europa e USA, ma poiché il mondo dei videogiochi in quella decade è quello che è accade che qualche tizio a Taiwan cracchi la cartuccia e si metta a produrre la propria versione, identica tranne che per qualche variazione cosmetica. Il gioco si chiama ora Bi! Bi!, fa schifo uguale (anzi, di più) ma può "prosperare" Down Under. Ebbene sì, Bi! Bi! viene pubblicato -tramite l'etichetta Rainbow Vision- in Australia2, nazione comunque non aliena ai bootleg (si pensi alla HES e ai suoi casini con la Nintendo). La dinastia di Skin Diver però non si ferma qui: riemerge inaspettatamente oltre 15 anni dopo nuovamente sulla sponda ovest del Pacifico. Non negli USA, dove vide molte delle sue varie nascite, bensì nel Canada, dove la Gray Games di Charles F. "Atari Charlie" Gray ricracca tutto e crea Cyplix.
Anf.
Bon, allora: Skin Diver. Nella sua struttura è un gioco semplicissimo, composto da sole due schermate: nel primo il nostro avatar (un sub) sta su una barca nella parte superiore dello schermo; sotto di lui un lago in cui nuotano tre o quattro pesci (squali e razze blocchettosissimi). La seconda schermata è l'interno di un relitto, e vi si accede entrando in un grosso "coso" al centro del fondale (che è la nave stessa, ma è arduo capirlo: io pensavo fosse un'alga gigante). Il nostro sub deve buttarsi in acqua, uccidere tutti i pesci con un arpione, scendere nel relitto, recuperare tre artefatti sul fondo, tornare alla barca; ha 60 secondi di ossigeno una volta che si è tuffato, e ogni volta che torna alla barca ottiene vari punti in base ai pesci uccisi e agli artefatti recuperati. Se finisce l'aria o se viene viene toccato da un pesce, il sub perde una vita (ne ha tre a disposizione).
Ora, benché di disarmante semplicità (ma è un titolo per 2600, che si vuol pretendere), giocarci è frustrantissimo. Ogni volta che si tuffa il sub resta per un paio di secondi non controllabile (perché? Boh) e alla mercé dei pescioni; l'arpione si può sparare solo lateralmente e non verso l'alto o il basso; l'arpione, se manca il pesce, procede fino in fondo allo schermo prima di tornare nelle nostre mani e questo è un enorme problema perché IL SUB NON SI MUOVE FINCHÉ L'ARPIONE NON RIENTRA (MA PERCHÉ? MA SOPRATTUTTO, PERCHÉ?); mancare il bersaglio significa quindi morte certa, e sbagliare non è difficile visto che i controlli sono pessimi e la gestione delle collisioni pure. A condire il tutto, sonoro inesistente e glitch grafici a per gradire.
Bi! Bi!, il piratonzolo taiwanese citato sopra, riprende tutto questo e lo peggiora. Primo, usando colori più tristi e grafica ancora più casuale. E secondo, soprattutto, introducendo la simpatica feature di incastrare il sub nel relitto non appena vi entra, impedendo al gioco di proseguire. Scacco matto. Che invidia per gli australiani che se lo sono accaparrato, eh?

E Cyplix? Eccoci finalmente arrivati. Cyplix è un homebrew proveniente da Vancouver: a programmarlo troviamo come detto tale Charles Gray, che nel 2004 adatta Bi! Bi! al nuovo millennio. Rimosso lo stronzissimo bug dell'uomo-rana incastrato, il gioco resta praticamente lo stesso, quindi l'intervento di Atari Charlie non è realmente salvifico; quello che redime questo nuovo hack però è la geniale (?) veste grafica che trasforma l'anonimo sommozzatore in Pac-Man! E i pesci diventano ovviamente fantasmi! Chiaramente la cosa è stata fatta con un particolare criterio, così gli sprite utilizzati sono esattamente quelli dell'infame Pac-Man atariano di Tod Frye. Gray completa l'opera cambiando i tesori nel relitto con un altro beneamato "eroe" del 2600, ovvero E.T. Ecco  così che abbiamo un titolo oscuro, bruttissimo e ingiocabile che ora cita due schifezze di gran pregio: più che un videogame il tutto diventa una sorta di chicca per intenditori del brutto e cultori atariani, una videoinstallazione che va vista più dal punto di vista meta-referenziale che da quello ludico. Il background del gioco, compreso nel manuale e facilmente reperibile online, esplica bene le intenzioni assolutamente goliardiche:

The year is 2384 and mankind has been exterminated. What started off as a fad in the 1980's known as Pac-Man Fever has evolved and become a cult. The Ghost Overlord known only as Cyplix recognized by his one eye is the center of this new civilization. His monuments are situated on all continents glorifying the greatness that is Cyplix and his Ghost Religion.
[...]
An Atari Shadow super computer with the pet name Blinky becomes self-aware on July 17th, 2037 and takes on the persona of the ghost Shadow(nickname Blinky) found in the original Pac-Man game and plans to take over the world. Blinky is patient and buys his time absorbing as much information as it can from the Ultranet(evolved and much faster version of the Internet introduced by the American Government in 2012). Blinky or as some know him formally as Shadow, is true to his name, patient and equally vengeful against those who he believes are against him and his goals.
[...]
It is now 2384. Little does Cyplix know, that a group of humans dwell in the now coastal city of Edmonton. This group of human's led by the one known as Travis Butchart, use human to ghost genetic transformation techniques to transform a volunteer human into the only force that can possibly combat the Ghosts. His name is Pac-Man. You are Pac-Man and your battle starts with the elimination of the Sea-Ghosts. In the sea you will battle new Ghost enemies such as Danny(yellow ghost), Quinty(pink ghost), Babo(the large and fat orange ghost) and Cipa (the large and fat pink ghost). There are also the three Sea Cy-Ghosts known only as Cpuwiz, Kepone, and Ezzy who religiously guard the Cyplix's captives: E.T., E.T. Junior, and Ms. Pac-Man. They are in suspended animation and you must free them, as they are mankind's only hope in defeating Cyplix and his Ghost Religion.

Mica pizza e fichi.




In alto Skin Diver/Scuba Diver/Sea Hunt (titolo e sviluppatore cambiano,
ma il gioco è sempre lo stesso); in mezzo Bi! Bi!; in fondo Cyplix.
Di tutti e tre mostro solo il primo schema, non avevo la pazienza
di arrivare di nuovo al secondo per fare gli screenshot, scusate.



Nel 2006 Gray ha rilasciato Cyplix II (!). La base di partenza per questo seguito è Fathom della Imagic, un gioco e una software house con pedigree decisamente più consistenti degli ascendenti del primo Cyplix. Non ho comunque avuto occasione di provarlo.
E poi basta, direi. Un saluto.

[1] per dovere di precisione: il sito AtariAge sembra suggerire che il titolo sia nato originariamente dalla Panda, e riporta nel contempo che tale Panda sia entrata nel mercato nel 1984, ma è un doppio errore. In realtà Scuba Diver non solo riporta "1983" sulla cartuccia, ma presenta anche il testo "Sancho 1983" a schermo quando il gioco è in attractive mode. Ergo la Panda nel 1984 c'era già e Skin Diver precede Scuba Diver, non il contrario. Non si tratta peraltro dell'unico furto di Panda nei confronti di Sancho.

[2] e anche in Germania, dove col nome Ungeheuer Der Tiefe ("Mostro degli abissi", se non erro) venne pubblicato da Quelle, grosso distributore tedesco che potreste ricordare per "E.T. go come"/"UFI und sein gefährlicher Einsatz", labyrinth-game a suo tempo deriso dall'Angry Video Game Nerd.

giovedì 22 settembre 2016

The Sentinel (Acorn BBC et al., 1986)

Mi rendo conto che parlare di The Sentinel (The Sentry se siete statunitensi) abbia poco senso in un blog dedicato a cose fondamentalmente sconosciute. Ma (a) la coerenza non è mai stata il mio forte e (b) certi standard possono cambiare nel tempo: il capolavoro di Crammond compie trent'anni in questo abietto 2016, e nel frattempo non ha perso un'oncia di fascino, ma forse ora è sia un ricordo un po' troppo appannato tra chi l'ha giocato negli '80 sia un clamoroso carneade tra chi invece è troppo giovane per aver avuto il piacere di incrociarlo a tempo debito. Così ho deciso di recuperare questo vecchio articolo e farne dono a voi passanti. Buona visione.


O padre e a moça (1966)

Un prete in groppa un cavallo si inerpica per una dissestata mulattiera, in mezzo al nulla. Solo rocce, cespugli e bassi alberi lo circondano nel suo viaggio, fino all'arrivo in un paesino di piccole e povere case. È con queste bucoliche inquadrature che si apre O padre e a moça (Il prete e la ragazza), anno di grazia 1965 (anche se il film arriverà nei cinema l'anno dopo). Scene che potrebbero essere benissimo neorealiste, invece siamo in pieno Cinema Nôvo.
Qualche nome. Il film nasce da uno scritto del '62 che ha quasi lo stesso titolo (O padre, a moça), un poema di Carlos Drummond de Andrade; il regista si chiama Joaquim Pedro de Andrade (non c'è parentela, da quel che ho capito), ed è stato un esponente di spicco del CN: O padre è il suo primo lungometraggio, mentre il suo magnum opus sarebbe stato il successivo Macunaíma, tratto dall'omonimo bellissimo libro realizzato da un ennesimo de Andrade, Mario. I luoghi delle riprese si trovano nel Minas Gerais, in un decaduto paesino noto col complicato nome di São Gonçalo do Rio das Pedras e nei suoi dintorni. Poi ci sono gli attori: Helena Ignez, Paulo José, Mario Lago, Fauzi Arap e… basta. Solo quattro sono gli attori di questo film, perlomeno quelli di peso; un manipolo di gente mineira si occupa di rimpinguare le fila del cast, ma si tratta di comparse prive anche del minimo dialogo.

Il prete -il padre- che risale il tratturo è Paulo José, ventottenne attore teatrale al suo debutto cinematografico assoluto. Come nelle migliori tradizioni, José non doveva fare questo film: si ritrovò all'ultimo momento a rimpiazzare un collega resosi indisponibile. Non so se il film ci abbia perso, ma ne dubit: di sicuro José, che ha un'aria vagamente nerimarcoreiana, non sfigura. Anzi. Coprotagonista è la leggendaria Helena Ignez, Mariana nel film, all'epoca ventitreenne e, secondo me, bella come non sarebbe mai più stata. Mario Lago (Fortunato, possidente locale) e Fauzi Arap (Vitorino, farmacista alcolizzato) completano il conto dei protagonisti.

O padre e a moça sostanzialmente si divide in due parti relativamente distinte. La prima è di stampo più propriamente neorealista: il prete (di cui non sapremo mai il nome) arriva al paese, mandato a chiamare per dare l'estrema unzione al morente parroco, padre Antonio. Si installa poi al suo posto e prende conoscenza della realtà locale: un paesino isolato e povero, che ha perso ogni traccia di un passato leggermente migliore che gli era garantito dalla presenza di diamanti. A permettere la sopravvivenza del posto è Fortunato, che gestisce un emporio/bar e commercia coi pochi diamanti che i cercatori locali riescono ancora a trovare. Tutti sono indebitati con Fortunato, che riesce così a mantenere il controllo del paese.
Col possidente vive una giovane ragazza, Mariana. È lei, la moça, il nodo centrale della vicenda. È cresciuta sin dall'infanzia presso Fortunato, che l'ha presa con sé dietro preghiera dello spiantato padre di lei, e tutti si aspettano che i due, nonostante la grande differenza di età, convolino a nozze; ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Mariana è irrequieta e fondamentalmente scontenta della vita che fa; São Gonçalo è un paese noioso, e Fortunato è gelosissimo e la tiene quasi reclusa. Sospetta forse che lei lo tradisca, forse proprio con padre Antonio, benché lei neghi, e ritiene che -poiché il nuovo prete ha confessato il vecchio- il nuovo arrivato sappia qualcosa che lui non sa. A confondere ancora di più le acque c'è Vitorino, che fa discorsi strani sulla moralità dei vivi e quella del prete morto (anche nel bel mezzo del funerale di quest'ultimo), e ha un rapporto non chiaro con Mariana; difficile interpretare il suo modo di fare, reso oscuro dai fumi dell'alcool del quale è costantemente ottenebrato.
Il nuovo prete sconvolge lentamente gli equilibri di São Gonçalo, e São Gonçalo sconvolge lentamente gli equilibri del prete. Dopo una serie di faccia a faccia con gli altri protagonisti, arriva alla conclusione che tutti gli mentono; in piena confusione morale fugge con Mariana, che lo considera quasi un messia venuto a strapparla dalla prigionia. Si apre qui la seconda parte del film, più marcatamente simbolica, che si concentra completamente sui due fuggiaschi, che ben presto devono affrontare le conseguenze della loro scelta. Sarà soprattutto il reverendo a dover guardare dentro sé stesso per domare la tempesta emotiva che il paesino gli ha scatenato dentro, e Mariana farà da catalizzatore per spingerlo verso la decisione finale, che concluderà gli eventi una volta per tutte.

Non un lavoro per chi cerca emozioni forti e suspance: O padre e a moça è un'opera dominata dai silenzi (spesso anche molto lunghi) e dai dialoghi pacati. Paulo José in particolare è straordinario e trasmette tutti i tormenti interiori del suo personaggio con un'abilità da attore consumato – il lignaggio del suo passato teatrale si fa sentire chiaramente; restano impresse soprattutto le performance della seconda parte del film. Non è un caso che de Andrade abbia voluto José come protagonista anche in Macunaíma. Non sfigurano gli altri tre attori. La Ignez, benché ancora piuttosto giovane, aveva già una discreta carriera alle spalle (nel Cinema Nôvo; sarebbero in futuro arrivati il “passaggio” verso il Marginal e la definitiva consacrazione): qui è, come già detto, veramente bella e con una faccia angelica che ben si adatta al suo ruolo, per certi versi ambiguo; Mario Lago, che interpreta fondamentalmente uno stronzo, è un'altra faccia che funziona; il Vitorino di Fauzi Arap ha un animo ancora più incrinato di quello del prete: un ruolo difficile e un po' estremo che Arap comunque seppe far suo con disinvoltura.
Sul lato tecnico c'è poco da dire: le difficoltà di fare cinema in Brasile, soprattutto in mezzo al nulla, creano una situazione tale per cui sembra di stare nel dopoguerra italiano: il risultato è che il film sembra di almeno 15 anni più vecchio. Oltretutto la lavorazione fu difficoltosa: si è già detto dell'attore ammalatosi, si aggiunga che tutta l'attrezzatura andava ricaricata di notte a chilometri di distanza, e che de Andrade si mise sovente nei guai con la dittatura all'epoca al governo in Brasile (gli ultimi dettagli del film furono sistemati col regista agli arresti). La fotografia (in un bel bianco e nero piuttosto sporco) fa vedere a volte cose intriganti, ma perlopiù fa semplicemente il suo dovere (e in due o tre casi inserisce strani fermi immagine, scelta poco felice). Lo stesso si può dire per la colonna sonora.
Ma si tratta in fondo di dettagli che contano poco rispetto al bilancio finale: O padre e a moça conta per la storia che vuole raccontare, e conta molto perché la storia è molto bella, e raccontata da bravissimi narratori. Concedete credito a quest'opera, che resta una perla della cinematografia brasileira, benché ingiustamente un po' dimenticata.

martedì 2 agosto 2016

I yam what I yam... l'invenzione (2013)

I yam what I yam... l'invenzione è un corto che nasce da un'idea suggestiva, anche se difficile -forse impossibile- da concretizzare in maniera efficace. È un po' un esercizio di stile, un esperimento culturale da accettare senza troppe domande.

L'intuizione di Peter Sant è quella di creare una sorta di crasi tra due film che non potrebbero essere più diversi. Uno è Popeye, commedia di Robert Altman del 1980 che segnò il debutto hollywoodiano del compianto Robin Williams ("I yam what I yam and tha's all what I yam", diceva lo sgrammaticato marinaio nel Thimble Theatre, ed ecco il perché del titolo); l'altro è L'invenzione di Morel, onirica opera di Emidio Greco del 1974 con Giulio Brogi, tratto da un testo di Bioy Casares (amico e collaboratore di Borges, giusto per dare un'idea del tipo di storia). Un film statunitense di pura evasione contro un cervellotico dramma/fantascientifico italiano di ispirazione argentina, singolarmente accomunati da un dettaglio: Malta.
È qui infatti, sul disperso arcipelago mediterraneo, che i due film sono stati girati. Malta, nazione tradizionalmente priva di una propria cinematografia significativa, è stata più volte teatro operativo per produzioni estere: il caso appunto di Greco e Altman, che si insediarono vicino a Mellieħa. Quasi quarant'anni dopo il passaggio di Popeye sono ancora visibili le tracce (un'altra differenza col film italiano, il cui set era notoriamente fragilissimo e sparì del tutto una volta terminato il lavoro): Sweetheaven, benché in parte trasformato rispetto ai tempi del film, funziona ed è una apprezzata destinazione turistica. una Disneyland apocrifa -minuscola, a misura maltese- a tema braccioferresco.

Sant fa un gioco. Prende l'attore Emanuel Cutajar e lo cala in panni simili a quelli che già furono di Brogi. L'inizio è praticamente lo stesso che per L'invenzione: un naufrago senza nome e senza passato arriva dal mare e trova la strana costruzione. Stavolta però la costruzione non è il palazzone di Morel, ma il villaggio di Braccio di Ferro - anzi, no, è il Parco Divertimenti ideato dai maltesi con i resti di quel villaggio, cioè la cosa vera e non la finzione cinematografica da cui, forse, anche il personaggio di Cutajar proviene. Esso infatti, mentre passeggia stranito per Popeye Village, sebbene veda non è a sua volta visto; i (veri) intrattenitori del parco lo ignorano anche quando lui entra nei camerini e li osserva uscire dei propri personaggi al termine della giornata lavorativa. Tracciando un altro parallelismo con l'anonimo protagonista di Greco, anche Cutajar cade in un amore impossibile: al posto di Faustine in questo caso c'è la "Olivia Oyl" di Sweetheaven (Ana-Maria Grosu). L'innominato la pedina per qualche tempo, fino a un finale non particolarmente risolutivo.

I yam... è tutto qui, un interessante omaggio -a uso e consumo maltese- a due momenti cinematografici assai felici per l'arcipelago. Allo spettatore in realtà non rimane probabilmente molto, come già detto si tratta più di un esperimento -per quanto affascinante- che di un lavoro compiuto; Sant e Cutajar tuttavia sanno il fatto loro, e il corto scivola senza intoppi attraverso una sua poesia fino alla quieta conclusione.


domenica 10 luglio 2016

Massacre dans la 520eme dimension (Atari ST, 1987)

Se fossi un professionista nel campo del criticume dovrei astenermi dallo scrivere di cose che non conosco. Siccome professionista non sono, e di informazioni utili fin qui ne ho distribuite comunque ben poche, posso quasi tranquillamente mettere da parte l'etica se mi si presenta l'opportunità di parlare di Massacre dans la 520eme dimension (Massacre per gli amici e per i pigri).

Massacre è un gioco che è circolato poco. Nato nel 1987 in casa Loriciel e uscito solo per ST sul mercato francese, a distanza di 30 anni solo poche tracce se ne trovano sul web e pressoché tutte in linguaggio d'oltralpe. All'atto pratico si tratta di un'avventura punta e clicca in soggettiva, a schermate statiche: la parte centrale del monitor ospita un'inquadratura della scena, mentre inventario, descrizioni ed eventuali aiuti fanno da cornice. L'ambientazione è un museo degli orrori in completo disarmo (illustrato senza infamia e senza lode con colori piatti, grafica perfettibile e totale assenza di sonoro) in cui il nostro avatar si aggira in cerca di indizi con lo scopo di... boh. Complice la mia ignoranza nella lingua d'oil non sono riuscito a fare grandi progressi in Massacre, che comunque non appare un prodotto memorabile: oltre che estremamente elementare tecnicamente -come già detto- soffre di scelte di game design infelici, a partire da un pixel hunting davvero atroce (che costringe spesso a cliccare a caso per raccogliere oggetti invisibili) fino a un inventario che rasenta l'inutilità (mostra solo gli ultimi tre oggetti raccolti). Fortunatamente, in compenso è sempre presente una fondamentale icona che, una volta cliccata, ci ricorda che il gioco è stato pubblicato dalla Loriciel nel 1987! Ganzo!

A rendere Massacre peculiare e meritevole di menzione, comunque, sono due cose: la rarità e l'insistita ricerca del gore. Quest'ultimo punto sembra essere l'aspetto del gioco su cui i programmatori si sono spremuti di più: benché poco numerosi, gli incontri con gli NPC finiscono sovente con il mostrare schermate statiche dalla geometria incerta ma dal sicuro impatto visivo (almeno per la tecnologia dell'epoca). Il primo esempio lo si incontra già a pochi clic dall'inizio dell'avventura: una stanza cela un'invitante signorina seminuda ben visibile dallo spioncino della porta; anche un dilettante ingolfato di ormoni dovrebbe rendersi conto che c'è qualcosa di MOLTO sospetto in una ninfomane sola in un museo degli orrori abbandonato, e infatti i curiosi e gli incauti saranno premiati non con un profluvio di passione, ma con una ben più prosaica e demoniaca encefalotomia. In otto colori, a occhio e croce.



Val la pena qui ricordare che la Loriciel non era nuova a uscite del genere: solo due anni prima i francesi se ne erano usciti con Infernal runner, cultissimo platform 8-bit che ci vedeva alle prese con un omino da controllare lungo una casa degli orrori completamente fuori controllo. Un titolo di notevole violenza gratuita, per la sua epoca.

Quali le conclusioni? Ad inizio sproloquio parlavo di "cose che non conosco" e penso che sia ormai chiaro il perché: le informazioni di gioco tendono ad aiutare poco, e quel poco lo fanno in un idioma a me sconosciuto. In conseguenza di questo e della meccanica di gioco poco intuitiva, non sono riuscito ad addentrarmi che di pochissimo nei meandri della cinquecentoventesima dimensione. Si vocifera, e la cosa sembra credibile, che la soluzione finale sia a disposizione sin dalla scena iniziale per chi sappia come e dove cliccare: io ho provato a cliccare a casaccio ovunque per 30 minuti, ma invano. Senza aver visto il finale, senza aver capito nulla della storia, senza essermi granché divertito, ogni commento è fuori luogo; mi azzardo comunque a suggerire ad eventuali francofoni all'ascolto a prendere in mano il coso in oggetto e farsi un'idea (che sarà presumibilmente negativa) e a tutti gli altri di farsi piuttosto una bella passeggiata, che c'è pure bel tempo, dai.

domenica 29 maggio 2016

Tuvalu (1999)

Non solo Mel Brooks (Silent Movie, 1976 (in Italia maltitolato L'ultima follia di Mel Brooks)) o Michel Hazanavicius (The artist, 2011): l'epoca cinematografica recente e contemporanea, decenni dopo il tramonto del muto, porta diversi esempi di film poco o punto parlati. Nel mazzo appare anche questo sorprendente esperimento visivo ad opera del (folle?) tedesco Veit Helmer, una favola romantica quasi muta e quasi senza colori.
Tuvalu è la storia di Anton ed Eva, factotum (lui) e cliente (lei) di una piscina pubblica un tempo prestigiosa ed ora decaduta e fatiscente. Anton si innamora di Eva dal primo momento in cui la vede, e anche lei, dapprima riluttante, comincia a ricambiare. Le cose precipitano quando il padre di Eva muore per via di un crollo nel soffitto della piscina: Anton viene accusato di negligenza, Eva gli addossa la colpa della morte del genitore, e una perizia che fa seguito alla tragedia stabilisce che lo stabile non è agibile. Anton avrà tre giorni di tempo per sistemare l'edificio e riconquistare l'amata, ma il suo perfido fratello Gregor -il vero responsabile della morte del padre di Eva- ha altri progetti, e rema contro a sua insaputa.
Dichiaratamente ispirato ad un certo cinema di tanti anni fa (Jacques Tati in primis), Tuvalu è un "oggetto" straordinariamente sperimentale. Grandissime le prove d'attore dei due protagonisti: Anton è il camaleontico e inafferrabile Denis Lavant, esponente di spicco del cinema underground francese e non solo; Eva è la singolarmente affascinante Chulpan Khamatova, attrice tatara che proprio nel '99 ottenne una certa celebrità col surreale e divertente Luna Papa (coproduzione tagico-russo-tedesca che ebbe un notevole riscontro internazionale). Gran parte del fascino del film sta anche nelle location (che, tanto per proseguire con la macedonia di nazioni, sono in Bulgaria): lo stabile della piscina è un desolante, ma a suo modo dignitoso, palazzone stile primi del '900 che non sarebbe dispiaciuto a Gilliam; gli esterni sono profondamente piatti e deprimenti. Quanto ai tecnicismi, il 99% dell'audio è occupato dai normali rumori di acqua che scorre, macchinari che lavorano, gente che cammina o si tuffa; non c'è colonna sonora, eccetto per un frammento delle Mystere des Voix Bulgares* e per Mocking Song di Goran Bregovic che commenta gli ultimissimi istanti e i titoli di coda; non c'è parlato, se non per sporadiche chiamate per nome o poche parole di valenza internazionale (un "ciao", uno "chaffeur", un "inspektor"). Per quanto riguarda il colore: c'è, ma non c'è. Tutto il girato è stato desaturato in modo da rendere il film in bianco e nero; dopodichè uno strato di colore è stato sovrapposto alle immagini, tinta che cambia in base alle ambientazioni; così tutte le riprese in esterni sono di un gelido grigio-blu, quelle nella sala della piscina gialle, nella sala macchinari rosso-arancio...
L'intero stile dona al film un'aria fiabesca e ovattata, quasi da fumetto (un po' alla Amelie). Unito ad una vicenda tutto sommato lineare, è chiaro come ci si trovi davanti ad un cinema di forma, più che di sostanza: Tuvalu non vale tanto per quello che dice, ma per come lo dice. E lo dice bene.



* Le Mystere des Voix Bulgares in realtà non sono accreditate da nessuna parte; il frammento che ho nominato tuttavia è un pezzo vocale pienamente nel loro stile, e dati gli stretti legami del film con la Bulgaria sono abbastanza convinto che il contributo sia proprio loro.

giovedì 28 aprile 2016

I First Person Shooter secondo Amiga

Quali sono i motivi che hanno portato l'Amiga dalle stelle alle stalle, per di più nel giro di pochissimo tempo (diciamo durante il secondo quarto degli anni '90)? Ce ne sono molteplici. Non essendo un esperto potrei dire cagate, ma annovererei la dabbenaggine delle alte sfere, la mentalità passiva degli amighisti (ho la sensazione che parecchi credessero di avere tra le mani più o meno una semplice console), forse la pirateria, e tante altre cosucce.
Poi ci sono gli FPS. Senza stare a scomodare precursori veri o presunti del genere, nel 1992 la iD Software butta fuori Wolfenstein 3D sul DOS, creando immediatamente una frattura insanabile tra PC e Amiga. Wolf3D non verrà convertito su Amy (se non nel '99, quando ormai la situazione è completamente cambiata), e per vedere un First Person Shooter sull'hardware Commodore - diciamo pure per dimostrare che gli FPS ci potevano girare - bisognerà attendere il '95; un periodo particolare, nel quale su PC escono FPS a carrettate (anche se non di rado di qualità quasi criminale), e l'Amiga è già in una situazione non proprio drammatica, ma chiaramente deprimente.
Tutto questo preambolo per dirvi che oggi vi propinerò qualche minirecensione di FPS usciti solo per il buon vecchio Amy. Non vi preoccupate, lo faccio gratis.

1- Monster (o Monstrum)
Obbrobrioso titolo polacco (Dual System) del 1995 che detiene come uniche qualità delle ottime immagini di introduzione e soprattutto l'incredibile velocità dello scrolling. Per il resto, un'oscenità: la grafica è pietosa (ed è pure AGA!), spixellata come raramente si è visto; i nemici sono bruttissimi (quelli del primo livello poi hanno pure denti e unghie azzurre...), hanno giusto un paio di frame di animazione e muoiono con un colpo, e invece di lasciare cadaveri scompaiono di botto dallo schermo. Niente sonoro. Le opzioni sono in polacco, ma almeno per questo non c'è problema, non stiamo parlando di un'avventura grafica.
Nota a margine: la versione che ho provato crasha alla fine del terzo livello. Boh.

2- Behind the iron gate (Za zelazna brama)
Polacco pure questo, Btig esce nel 1995 ed è un titolo su chipset OCS, il che lo rende compatibile pure con il vecchio Amiga 500 (e, d'altro canto, soggetto a bug grafici sotto A1200). Dato il genere di gioco non è cosa da poco, oltretutto gira pure discretamente veloce e incredibilmente supporta il mouse; peccato che poi il titolo in sé sia dimenticabile: la colorazione è assolutamente bislacca (è tutto rosa e blu/azzurrognolo, mmm...), l'ambientazione perplime assai, i nemici pure e, se devo essere incero, non ho minimamente capito come cavolo si gioca. Ho schiacciato tutti i tasti e niente, il primo nemico incontrato mi ha massacrato in tutta calma...

3- Fears
Forse il primo FPS con qualche ambizione (assieme a Gloom) ad essere uscito su Amiga, Fears viene prodotto dalla Bomb Software, che è francese (meno male, di polacchi ne avevo fin sopra a testa. Senza offesa) e distribuito da Manyk. E, in realtà, è una delusione. Graficamente non è poi scandaloso, ma il motore è indubbiamente poveristico, e i nemici (che sono praticamente delle sfere colorate) danno un tocco kitsch francamente evitabile. Fears non è orrendo, ma - ad esempio - il paragone con Doom, che ha già 3 anni sulle spalle, è improponibile (e stiamo parlando di un titolo AGA, eh!). Fears pare fatto in fretta e furia, ed è un peccato perchè poteva uscirne un discreto giochillo. Rimandato.
PS: mi sono incartato al secondo livello, non capisco come uscirne. Oltretutto c'è un canalone pieno di lava da cui non si può uscire se vi si cade. Bella merda.

4- Gloom
Dico subito che Gloom non l'ho provato. È qui perchè è stato probabilmente il più significativo e diffuso clone di Doom presente su Amiga per parecchio tempo (oltre che il più serializzato, 3 o 4 episodi mi pare), ma non posso giudicare la bontà del prodotto, che comunque si è preso una discreta valutazione su Lemon Amiga e su parecchie riviste di settore (tra cui un 90% da Amiga Power, il che è tutto dire data la "bastardaggine" di quella rivista).
Quindi, se non l'ho giocato, che ne parlo a fare? Niente, lo cito perchè è giusto così, per poi passare oltre.

Gli italianissimi Field Of Vision hanno scritto due software per Amy: un pregevole sparatutto stile R-Type di cui non ho voglia di cercare il nome e questo Breathless. E' sempre il 1995 come per tutti i giochi precedenti, ma la distanza tecnica tra il gioco italiano e gli altri rende Gloom e compagnia immediatamente obsoleti, andando addirittura a piazzarsi molto vicino ai giochi PC (e per certi versi supera persino Doom). Certo non è la perfezione fatta codice: soprattutto si soffre parecchio l'assenza della possibilità di usare il mouse (all'epoca la cosa era però meno incisiva, dato che l'uso del mouse negli FPS non era ancora troppo diffuso). In più il gioco non è dinamicissimo, ma più che un vero difetto è una scelta di design, oltre che una necessità dovuta alla complessità della grafica che rende pesante il lavoro del 68k.
Breathless non è diventato famoso o diffuso quanto Gloom, ad esempio, ma resta una perla da giocare assolutamente almeno una volta. Menzione d'onore per le musiche, a mio avviso grandiose.

6- Alien Breed 3D 2: The killing grounds
La saga di Alien Breed è stata una delle più famose e acclamate nella storia della macchina della Commodore. Tutti i titoli della serie sono sparatutto con abbondanti spruzzate di atmosfere horror (del resto siamo davanti a giochi pesantemente ispirati ai vari Alien cinematografici), ma mentre i primi avevano una visuale dall'alto, nel 1995 (aridaje) si passò alla soggettiva. Dopo un primo Alien Breed 3D, il Team 17 lavorò all'ultimo suo titolo per Amiga, questo AB3D2 che spaccò letteralmente in due pubblico e critica. AB3D2 è un titolo dalla sorprendente complessità tecnica per l'epoca, soprattutto considerando che stiamo parlando di un gioco Amiga, e questo fattore si ritorce contro gli utenti presentandogli un gioco che il computer fatica a gestire. AB3D2 esce su 5 floppy, che comprendono due versioni, una "light" e una massiccia; il problema è che la seconda è veramente impressionante ma richiede configurazioni pompatissime che all'epoca avevano in pochi, costringendo l'utente medio a ripiegare sul modo "castrato" perdendo buona parte dell'impatto del titolo. Oggi, con gli emulatori e processori che ci ritroviamo, questo problema non si pone più e vale la pena dare un occhio a un titolo che a suo tempo poteva rivaleggiare con i nemici del DOS. Grave pecca: anche in questo caso, niente mouse.

7- Genetic Species
Anche GS (prodotto dai danesi Marble Eyes) è un titolo che purtroppo non ho giocato, ma lo aggiungo come bonus: uscito nel 1998, è stato l'ultimo FPS dedicato al solo Amiga, in un'epoca in cui già avevano cominciato a circolare conversioni più o meno legali dei titoli PC (c'era già in giro Quake, ad esempio). Genetic Species è molto diverso dai titoli visti fin qui: è su CD, supporta il mouse, richiede una scheda grafica e tanta, tanta memoria. Purtroppo il 1998 era già un'annata tragica per gli Amy, e non in molti hanno giocato GS nonostante venga da più parti considerato il miglior FPS per questo sistema. Cercherò di provarlo al più presto, tanto adesso è pure freeware...

domenica 24 aprile 2016

Proini peripolos (1987)

L'ateniese Nikos Nikolaidis (1939-2007) non è esattamente uno dei registi più noti al grande pubblico, perlomeno al di fuori della Grecia. Sin dal suo esordio cinematografico con l'ipersperimentale Evrydiki BA 2037 (1975) si era capito chiaramente che non ci si trovava di fronte a un artista facile e comprensibile, e i film successivi hanno confermato questo trend. Proini peripolos (Πρωινή Περίπολος in alfabeto greco, tradotto dovrebbe significare qualcosa come “pattuglia mattutina”) è l'opera quarta del Nostro, e sebbene meno contorta della summenzionata rivisitazione del mito virgiliano resta un oggetto scarsamente penetrabile.
Il genere è, bene o male, quello fantascientifico, nella declinazione postapocalittica; la storia… facilmente riassumibile, per la verità, ma difficile a capirsi. Bene o male il film si divide in due parti di durata quasi equivalente: per quasi tutta la prima metà sulla scena compare il gran totale di UN personaggio, una donna senza nome sulla trentina (interpretata da Michele Valley*) che non ricorda del suo passato che pochi frammenti quasi di sogno (raccontati in un suo dialogo interiore) e che si muove in una campagna deserta fino a raggiungere una città. Qui tutto sembra funzionare: le luci sono accese e i cinematografi funzionano… ma nessuno -o quasi- si aggira per le strade o gli edifici. Un significativo incontro con un militare (l'attore Takis Spiridakis) dà poi il via alla seconda parte del film, leggermente più ricca di eventi grazie alle frizioni tra i due personaggi e all'improvvisa comparsa di uno scopo nel peregrinare della signora.

Dunque: un postapocalittico, sì. Ma non siamo dalle parti di -che so- un Mad Max 2: in Proini peripolos l'ambientazione è urbana e sostanzialmente integra, tutto è scuro e lugubre, la violenza è meno spiattellata e non ci sono concessioni all'azione. C'è una certa originalità e volendo fare un paragone, con le dovute proporzioni, P.p. mescola i tardi sci-fi low budget italici con nientemeno che le auliche suggestioni di Stalker. È soprattutto la seconda parte che mi spinge a fare qualche accostamento con il capolavoro sovietico, non tanto per i contenuti quanto per il rapporto tra la donna e il militare che ricorda un po' quello dei tre personaggi di Stalker, con il militare a fare da guida e la donna alla mercé delle sue indicazioni. Ma a parte questo aspetto e qualche altra somiglianza minore (la desolazione degli ambienti, il ritmo rarefatto di entrambe le opere) non ci sono altre forti similitudini tra i due film; le forti implicazioni simboliche create da Tarkovskij sono sostanzialmente assenti nel lavoro di Nikolaidis, che si limita a qualche poeticheria bene o male fine a sé stessa. Anche la donna e la guardia si relazionano in modo assai diverso: lei trova infatti ben presto il punto debole dell'uomo e si servirà di questa conoscenza per ricattarlo e creare una situazione in cui entrambi hanno bisogno dell'altra persona. Non che questo finisca con il creare chissà quali tensioni all'interno del film, comunque.

Concludendo, che dire? Mah, non mi ha fatto impazzire ma tutto sommato mi è piaciuto. Gli amanti dei postapocalittici “sui generis”, lenti e onirici e senza elementi exploitation, farebbero bene a dargli un'occhiata.





*svizzera di nascita ma attiva quasi esclusivamente in Grecia; la Valley è probabilmente nota all'estero principalmente per il ruolo della madre nel controverso Kynodontas (2009).

martedì 22 marzo 2016

Lee Enfield in the tournament of death (C64 et al., 1988)

- Pubblicato nel 198.. uh...
- Cominciamo bene.
- Un lapsus. Capita. Ecco qui: 1988. Pubblicato nel 1988 per Commodore 64, Amstrad CPC464 ed Atari ST, Lee Enfield irrompe nel mercato dell'intrattenimento elettronico, provocando inusitate esaltazioni.
- Davvero?
- No. Allora, intanto va detto che la responsabilità di questo crimine contro i videogiocatori è della Infogrames.
- Quella dell'armadillo epilettico!
- Se vuoi vederla così, sì. Lee Enfield in the tournament of death è stato programmato in due versioni: una localizzata per la Francia, e una per la non-Francia. Quella francese ha un altro nome: Bob Morane chevalerie. Ora, ricostruire decentemente la storia di tale prodotto, dimenticato -giustamente- da Dio e dagli uomini, non è facile. La mia supposizione è che, essendo la Infocosa francese, Bob Morane sia il nome originale, e Lee Loffio una riedizione per l'estero, dove il personaggio di Morane (famoso avventuriero della letteratura francese, a quanto pare) è assai di striscio cagato.
- Interessante.
- Ma proprio per nulla.
- Vero. E devo dire che, cercando Lee Enfield su Google, saltano fuori un sacco di foto di fucili.
- Emblematico, non trovi? C'è da dire che Bob Morane chevalerie esiste per CPC (e Atari ST, per il quale invece parrebbe mancare Lee Enfield), MA NON per C64. Per quest'ultimo c'è invece un'ulteriore localizzazione tedesca, Bob Moran rittertum. Assai incomprensibile. Comunque, il gioco è sempre la stessa menata.
- Proprio identica? Non cambia nemmeno un pixel?
- Cambiano tre cose: il titolo, l'intro (un'orrida schermata fissa per BM, niente del tutto per LE) e la scritta che campeggia in alto durante il gioco e che ne riporta il nome, casomai rischiassimo di dimenticarcelo. Elegante.
- Ma il gioco in sé com'è? Perchè blateri da mezz'ora, ma io non l'ho ancora capito.
- Se ti può consolare, nemmeno io che l'ho provato. Innanzitutto l'area di gioco copre nientemeno che il 29,1% dello schermo (sì, ho calcolato l'area, e allora? Vuoi farmi causa? Ciupa). Nel 70,9% restante (voglio dire, PIU' DI DUE TERZI DELLO SCHERMO BUTTATI, santoddio!) campeggiano -statici- il nome del gioco, parte del volto di una specie di mostro viola che non si capisce che sia, sarà forse il nemico finale, non so, e il volto del nostro eroe: espressivo come solo Steven Seagal che cerca di imitare Kimi Raikkonen col metodo Stanislavskij, e inguainato in un'armatura azzurrina che persino nella pixellosa ottobittità appare finta come fosse fatta con stagnola Kinder 5 Cereali.
- Ho un'erezione. Continua.
- Tutto ciò è già brutto su C64. Su CPC i colori diventano ancora meno reali, simili a un quadro fauves spento -non so, rendo l'idea?-, con Loffio che ha una specie di varicella squadrata talmente contagiosa da infettare l'armatura. Su ST, stante le maggiori capacità del 16-bit atariano, la situzione non può che...?
- ...migliorare?
- Bravo, credici agli UFO. Ecco forse Morane è disegnato un pelo meglio, il che riesce però solo a intristire ulteriormente il tutto (vedere per credere). La colorazione compete comunque con la versione Amstrad. Per quanto riguarda lo schermino di gioco, peggio che andar di notte: tutto sembra fatto col lego, con una colorazione che si poteva trasportare direttamente su Spectrum senza problemi. Solo per approssimazione riusciamo a renderci conto che l'ambientazione è l'interno di un castello. Enfield è una chiazza viola seghettata che nulla ha di similare al fesso che resta disegnato sul lato dello schermo; i nemici sono altre chiazze seghettate, e grazie tante che almeno sono colorate in modo diverso.
- Immagino che delle musiche non si sia occupato Hubbard.
- L'unico nominativo collegato al gioco che ho trovato (grafici e programmatori sono saggiamente scomparsi nel nulla) è quello del musicista, tale Georg Brandt. Qualche lavoro all'attivo ce l'ha, personalmente l'avevo già sentito nominare per BEAM.
- BEAM lo conosco anch'io. La musica è bella.
- Mah, carina. Comunque lui di BEAM ha scritto la versione 64, mentre Carsten Neubauer quella ST e Thomas Hermann quella Amiga. Arrangiamenti a parte, la melodia è la stessa, quindi chi è il vero autore? E' farina del sacco di Brandt? Mmh.
- Ma quanto sei stronzo. Riconoscigli almeno che tecnicamente la musica è venuta discretamente (soprattutto se l'ha riscritta downgradando la versione Amiga).
- Lo riconosco, e nulla più. Comunque dirò un'eresia: anche la musichetta di BM/LE (ovviamente è la stessa per entrambi) è carina. Per 20 secondi. Poi inizia il loop.
- Ma veniamo al piatto forte, suppongo.
- Intendi il gioco in sé? Ebbene, ho provato sia LE che BM, sia per biscottone che per CPC (la versione ST l'ho evitata). I due LE sono ingiocabili nel senso stretto del termine: su CPC non parte; su C64 la chiazza violacea si muove solo con forte ritardo, in modo incongruo rispetto ai comandi impartiti, e non appena si muove comincia a perdere energia senza motivo e senza che si possa fermare la cosa. Nel giro di un minuto dall'inizio del gioco sono morto, senza sapere perché. A quel punto tutto si blocca e se voglio rigiocare (MWAHAHAHAHHA!) devo riavviare il biscottone. Molto gratificante.
- Immagino.
- Forse sono stato sfortunato con le versioni. Ma la cosa scioccante è che in realtà tutti questi bug non compromettono significativamente l'esperienza ludica. Ce ne possiamo rendere conto giocando a Bob Moran[e], che invece purtroppo "funziona".
- Tra virgolette.
- Chiaro. Lo sprite violaceo schizza di qua e di là in modo poco controllabile, ogni tanto appaiono nemici a caso (soprattutto cosi bianchi che a naso dovrebbero essere orsi polari. In un castello. Certo).
- Beh, niente vieta di costruire un castello a Nuuk.
- Bah, hai ragione, del resto si è visto di peggio in Weird Dreams. I nemici comunque si dovrebbero abbattere a pugni premendo il tasto di fuoco. Io non ce l'ho fatta, i cazzotti vanno a vuoto. Ho fatto una manciata di tentativi, e non sono mai riuscito a uscire dalla prima stanza o anche solo a colpire un nemico, né su C64 né su CPC. Sono affranto e penso che non riprenderò mai più in mano un videogioco.
- Insomma, un'esperienza stimolante.
- Tipo le prugne.




(Nota: questo abominio è stato pubblicato in un'ulteriore versione per un computer che non conosco, il Thomson TO 8. Non esiste invece la versione PC, nonostante lo sostenga la recensione dello Zzap! italiano dell'epoca: è solo un errore di traduzione, la versione recensita è banalmente quella C64).
(Nota-bis: grazie a una segnalazione ho scoperto, dopo molti anni che una versione per PC di questo gioco effettivamente esisteva, ma col nome di Bob Morane. Mi scuso con i lettori per l'imprecisione di tre righe più su). 

domenica 28 febbraio 2016

Mangia' (Atari 2600, 1983)

Italiani, spaghetti pizza mandolino mafia. Una cosa bella della sagra degli stereotipi è che colpisce tutti indistintamente: i giapponesi nerd, i francesi con la baguette, gli africani col ritmo nel sangue, i coreani coi cani nel piatto. Gli italiani hanno una bella lista di tropi da portarsi dietro, e non è forse poi così strano che qualcuno abbia pensato di prenderne uno -l'amore per la pasta, nientemeno- e farci un videogioco. Ci voleva comunque una mente un po' contorta per avere un'idea del genere, e il gioco che ne è uscito lo dimostra assai bene.

Mangia' venne prodotto dalla statunitense SpectraVision nel 1983 e distribuito unicamente in Nordamerica. Per la serie "cominciamo bene" già il nome suscita perplessità: cosa rappresenta l'apostrofo? Considerata la scarsa attitudine anglofona a maneggiare gli accenti, resta il dubbio di trovarsi davanti ad un'elisione anziché ad una parola tronca: solo che "mangià" non è neanche una parola vera, mentre "mangia' " -che ha quantomeno una sua dignità dialettale- non ha alcun senso nel contesto. Il manuale leva ogni dubbio nel modo peggiore, dato che se ne estrapola questa riga:

" Eat! Eat - Mangia'! Mangia'! Come on it's good for you!! "

Per la SpectraVision (o almeno per l'anonimo programmatore del gioco) "mangia' " è l'imperativo di "mangiare" per la seconda persona singolare. Beh, dai, quasi indovinato...

Lasciando da parte 'ste stronzate da cruscante della domenica, passiamo al software. Mangia' è un... mah... diciamo pure un puzzle game di stramba fattura. La schermata è fissa e inquadra un sobrio soggiorno arredato con un tavolo e una sedia. Una musica che diventa insopportabile dopo pochissimi picosecondi risuona in sottofondo. Un brutto quadro picassiano e una finestra ornano l'unica parete visibile, mentre quattro loschi figuri popolano la sala: una donna, suo figlio, un cane e un gatto (ok, il gatto è in realtà fuori dalla finestra, ma non sottilizziamo). La mamma porta piatti di pasta al suo bimbo, il suo bimbo -che è seduto al tavolo- deve mangiarli, il cane e il gatto ciondolano dentro e fuori lo schermo. Ah, secondo mistero del gioco: stando al manuale il cane si chiama Sergio e il gatto Frankie; si suppone quindi che siano sempre gli stessi due individui, ma ogni volta che riappaiono il loro colore cambia. Come sarà possibile?
Va beh, veniamo alla meccanica di gioco, in realtà estremamente semplice benché efficace. La mamma porta la pasta al bimbo, come già detto, ma c'è un problema: già nel primo livello ne ha preparato 30 piatti, quantità eccessiva per la creatura che può reggerne al massimo 20 (alla faccia...). La genitrice fa continuamente la spola tra cucina e tavolo ed ogni volta porta un piatto, e se sul tavolo se ne accumulano 10 il mobile cederà per il peso. Combattuto tra il non poter mangiare tutta la pasta (cosa che finirebbe per ucciderlo) e il non poterla lasciare stare (per non distruggere il tavolo), il figlio dovrà sovente prendere una terza strada: gettare il cibo agli animali.
Sta a noi controllare le scelte del bimbo, e il gioco sta tutto qui. Sostanzialmente si tratta di prendere un piatto dal tavolo e lanciarlo al cane o al gatto, e continuare fino a quando la scorta di pasta è esaurita (c'è un contatore che ce lo ricorda sempre). Lanciare cibo agli animali è rischioso perché non solo va fatto quando gli animali sono al posto giusto, e già questo è problematico, ma anche quando la mamma è di spalle; ovviamente gli esseri pelosi hanno la tendenza ad apparire e scomparire nei momenti meno adatti, il che obbliga a mangiare alcuni dei piatti di pasta se non vogliamo che se ne accumulino troppo e il tavolo crolli. Se questo succede, o se il bimbo mangia 20 piatti di pasta (cosa che provoca la versione atariana del destino di mister Creosote, gh...) si perde una vita delle tre disponibili. Se invece veniamo colti dalla madre a scartare cibo, o se gli animali non lo raccolgono perché lo lanciamo nel momento sbagliato, saremo puniti con la consegna di tre piatti contemporaneamente e l'innalzamento del totale complessivo di piatti da smaltire (quindi i 30 piatti totali del primo livello diventano 33).

Sostanzialmente non c'è altro. Un gioco abbastanza involuto già ai tempi in cui uscì, Mangia' non ebbe a quanto pare grande successo. AtariAge segnala un indice di rarità pari a 10/10 (unbelievably rare), e nonostante l'attuale mondo dell'emulazione resta a tutt'oggi un titolo piuttosto oscuro. Risulta però divertente per qualche minuto, e una tangibile prova dell'incredibile caos di idee che regnava nel mondo del videogame in quegli spensierati eighties.



martedì 19 gennaio 2016

Světlonoš (2005)

Švankmajer. Cosa significa questa parola? Non è un insulto, come qualcuno potrebbe forse pensare. Più prosaicamente, si tratta nientemeno che di un cognome. Un cognome slavo portato da un leggendario regista, autore e animatore ceco, Jan Švankmajer, figura di spicco (oserei dire di culto) nel campo dell'animazione, non solo nell'ex blocco comunista. Siano esse animate o girate dal vivo, le opere di Jan, classe '34, non sono mai banali e portano con loro quella sana dose di mindfuck che rende la vita degna di essere temuta. Valgano a titolo di esempio i 450 secondi di Tma/Svetlo/Tma (Luce/Buio/Luce, 1989), claymation dove un uomo completamente sezionato di "ricompone" da sé.
Buon sangue non mente. Nel '75 Jan dà luce a uno dei suoi lavori meglio riusciti, ovvero il figlio Václav; il quale una volta cresciuto si pone sulle orme del padre e produce qualche apprezzato lavoro di per sé. Uno di questi, un cortometraggio di 25 minuti scarsi, esce nel 2005 dopo 5 anni di lavoro. Si tratta di Světlonoš (ovvero qualcosa come "il portatore di luce"; The Torchbearer il titolo internazionale).

Non si sanno bene il dove e il quando; sembra comunque una sorta di medioevo alternativo. Un imperatore siede sul trono, e il sole e la luna si alternano normalmente sul suo regno. Ma un giorno l'imperatore muore, e la sua morte sconvolge il ciclo di luce e notte: il mondo resta e resterà in balia di un buio infinito, finché l'imperatore avrà un degno erede.
È questo l'antefatto di Světlonoš, suggerito in un prologo a disegni [poco] animati, così come lo sarà anche l'epilogo. La vicenda vera e propria è invece tutta girata in stop-motion: un uomo in armatura si addentra in una labirintica cittadella in cerca del trono. La cittadella però nasconde insidie mortali, attivate da una serie di statue senzienti che senza alcuno scrupolo metteranno tre volte alla prova l'abilità, l'ambizione e la vita l'aspirante eroe.

Světlonoš è un'opera straordinaria. È un horror immensamente cupo e inquietante, assai raffinato, gelido nella rappresentazione. Non ci sono dialoghi, non ci sono vere persone in cui identificarsi (il viso dell'eroe è nascosto dall'elmo, l'imperatore ormai è uno scheletro, le statue... beh, sono statue), non ci sono appigli sicuri per lo spettatore. Le musiche, opera di Ondřej Ježek, sono semplicissime ed efficaci, quasi darkwave. L'ambientazione mette un disagio palpabile. La regia è curatissima. E, senza svelare nulla di particolare, il finale colpisce veramente duro. Forse esagero, ma per me è stato amore a prima vista. Světlonoš è un'opera straordinaria, scusate se insisto. Assolutamente da recuperare.


lunedì 18 gennaio 2016

La abadia del crimen (Spectrum/CPC/MSX, 1987)

Millenni fa comprai per puro caso una rivista di videogiochi per Playstation (forse era SuperConsole), contenente, caso strano, un articolo simpatico e interessante (e probabilmente inventato di sana pianta, ma tant'è): un redattore aveva telefonato a diverse Case di produzione cinematografiche fingendosi un addetto di una software house interessata a comprare i diritti per creare i tie-in di vari film. Ovviamente si trattava di pellicole completamente impossibili da trasformare in giochi, ad esempio Lolita di Kubrick. Gli interlocutori non si dimostrarono granché convinti.
Mi è tornato in mente quell'articolo pensando al gioco di questo post. È possibile scrivere un videogioco tratto da Il nome della rosa di Umberto Eco? Sulle prime si direbbe un'idea un filo idiota. Eppure.

Il coraggioso tentativo di digitalizzare il lavoro di Eco ha origine in quel di Madrid. Già qui occorre aprire una parentesi sul perché di una località così "esotica": videogiochi spagnoli? Ma quando mai?
In effetti, come i meno informati potrebbero ignorare, tra la metà degli '80 e quella dei '90 la seconda più prolifica nazione europea in fatto di videogame -dopo il Regno Unito- fu proprio la Spagna. Questo breve regno, noto come "l'epoca d'oro del software spagnolo" (un po' la versione digitale del Siglo de Oro, ma -in puro stile Novecento- molto più breve), ha visto fuoriuscire dalla penisola iberica un gran numero di titoli, molti dei quali effettivamente pregevoli. A causa di disastrose scelte di marketing, le software house spagnole restarono stoicamente (e giocoforza) fedeli ai computer 8 bit, cosa che si tradusse ovviamente in un suicidio sul lungo periodo. Di quel retaggio oggi non resta praticamente quasi più nulla; alla fine degli anni '90 di tutte le softhouse solo la Dinamic era riuscita a switchare verso macchine più potenti e a sopravvivere -non per molto però; quelle cadute furono invece innumerevoli. Tra queste troviamo la Opera Soft, che nel 1987 pubblica La abadia del crimen.

La abadia del crimen (che, lo dico a beneficio dei non ispanofoni, tradotto in italiano suona qualcosa come "Il monastero del delitto") è largamente considerato uno dei migliori giochi di sempre per computer a 8 bit, e si può considerare il magnum opus dell'intera epopea spagnola. Venne pubblicato originariamente per Amstrad CPC, e in seguito convertito per Speccy, MSX e PC (ma non per C64, che era poco popolare da quelle parti). Ovviamente, essendo le leggi del mercato quello che sono, poiché La abadia era un titolo assai valido non venne ufficialmente mai pubblicato fuori dai patrii confini (gnè).

Ok, ma com'è il gioco? Allora, si tratta di un'avventura grafica isometrica (in quegli anni ne erano uscite giusto altre due o tre [cento][mila]) in cui controlliamo Guillermo -ovvero Guglielmo- ed Adso che si trovano in un labirintico monastero e devono indagare su... insomma, l'avete letto il libro, no? Paco Menendez, ideatore e programmatore del gioco, riuscì a creare molto intelligentemente abbastanza “spazio” per innestare un meccanismo ludico nella trama del libro. Guillermo ed Adso devono raccogliere indizi e fare debite deduzioni, ma nel mentre vanno seguite le regole dell'abazia, che prevedono il dover seguire alcuni obblighi nel corso della giornata. Il gioco è in effetti diviso in giornate, ed ogni giornata in “ore”, che -come ben sa chi ha letto il libro- in realtà sono piuttosto dei “periodi” (più lunghi delle ore reali) separati da vari momenti di preghiera. Nel gioco appaiono vari di questi periodi: mattutino, prima, terza, compieta, notte... in alcuni di questi momenti è obbligatorio interrompere le indagini e recarsi a mangiare o a pregare, pena l'abbassamento di una “barra di energia” che misura non l'energia ma l'OBBEDIENZA (!); e se la nostra condotta è così irrispettosa da far calare la barra a zero, l'abate superiore si riterrà così offeso da sbattere la coppia fuori dall'abazia. Con conseguente game over. Tra le cose che azzerano immediatamente la barra dell'obbedienza c'è il girare di notte per il monastero; il che è un bel problema perché ci sono cose che si possono fare solo di notte, con relativo rischio di farsi beccare da un supervisore. Ma la vita è troppo breve per rispettare le regole, no?

Ci sarebbero molte altre cose da dire, ma sarò sincero: questo gioco è D-I-F-F-I-C-I-L-E e ci ho giocato poco, quindi non c'è granché che possa aggiungere di mio. Vi lascio con un video di gameplay e con due curiosità.
a) Il gioco doveva effettivamente chiamarsi El nombre de la rosa, ma pare che Eco non abbia mai risposto ai tentativi fatti da Opera Soft per contattarlo riguardo i diritti.
b) Nella versione PC in un certo momento del gioco parte una registrazione dell'Ave Maria di Schubert; se però la copia è piratata, il software se ne accorge e invece della musica si sente una voce che dice “PIRATA! PIRATA! PIRATA!”, dopodiché crasha tutto (andate a 1:50 qui: https://www.youtube.com/watch?v=gVH85XUqIeM). Che sagome 'sti spagnoli.



mercoledì 13 gennaio 2016

[bɾaˈziw]

Non tutti hanno la fortuna di vivere nel primo mondo e di poter godere (almeno in via teorica) di privilegi quali cibo-spazzatura a volontà, pomeriggi negli acquapark e computer con proci multicore su cui giocare a fare la guerra senza dover strisciare per davvero nel fango. In paesi dei quali all'occidentale medio interessa relativamente poco, la tecnologia ha dovuto per forza percorrere strade più impervie; l'esempio delle nazioni oltrecortina è il primo che viene in mente, coi loro Spectrum clonati e i loro Dendy. Ma c'è un altro posto che ha sviluppato la sua peculiare identità informatica: il Brasile.

Ora, il Brasile è un posto strano. Vastissimo, eterogeneo ai limiti dell'impossibilità, paurosamente disorganizzato, fieramente autarchico. Dal punto di vista tecnologico è, un po' come il Giappone, patria di un buon numero di prodotti mai visti fuori dai suoi confini; i motivi di questo fenomeno sono però diversi, e per la roba brasiliana trattasi semplicemente del fatto che nel resto del mondo le loro console non hanno mai potuto avere alcun mercato: tutto troppo obsoleto. La causa? Beh, lo sviluppo informatico di quella landa è stato significativamente plasmato dalle draconiane leggi sull'importazione della tecnologia, che hanno reso decisamente più a buon mercato creare i computer in loco piuttosto che comprarli da fuori. Accumulando, in questo modo, un bel ritardo sul resto del mondo...

L'ecosistema videoludico brasiliano, vessato dalle ristrettezze, si è ovviamente rivelato un valido serbatoio per la pirateria (sia hardware che software), il cui impatto a livello internazionale è stato però molto meno significativo rispetto a quello dei "giganti" asiatici. C'è però chi ha preferito operare nell'ambito della legalità: in questo senso, un ruolo cardine nella creazione di nerdacci lusofoni l'ha avuto la società paulista Tec Toy, che tramite un accordo con Sega dalla fine degli anni '80 riuscì ad avviare la produzione di Master System locali regolarmente licenziati. L'inaspettato accordo con la Tec Toy fornì alla Sega sbocco in un mercato non particolarmente appetito e ancora relativamente vergine, al punto da rendere il Brasile la nazione più proficua per Sonic e compagni, praticamente l'unica dove la Nintendo abbia avuto la peggio contro l'eterna rivale. Data la vasta presenza di ceti a scarso reddito, per la Tec Toy la produzione e vendita di cloni SMS e MD a bassissimo costo è ancora oggi una scelta redditizia. Pensate che in Brasile -e solo lì- potete accattarvi un Mega Drive III (sorbole!); peccato che ormai le cartucce siano sorpassate anche lì, e da vari anni ormai queste console non sono altro che reingegnerizzazioni su singolo chip.


La Tec Toy si è occupata anche di software, avvalendosi di diverse opzioni: importazioni pure e semplici, traduzioni, localizzazioni (Wonder Boy ad esempio ha visto i propri personaggi sostituiti con quelli di un fumetto locale) o addirittura realizzazione in proprio. Come dicevo più su, molta roba dal paese non è mai uscita ed è molto ricercata dai collezionisti di tutto il mondo. Ad attrarre è ovviamente la rarità, perché sulla qualità non di rado si può questionare. Lo dimostra un titolo tutto tectoyano come 20-em-1 (Master System), una multicart che pare fare il verso a tutte quelle assurde cartucce -soprattutto per Famicom- con compilation di vari giochi più o meno piratati. 20-em-1 se non altro ha 20 giochi rigorosamente originali, ma tutti orrendamente privi di qualsiasi attrattiva, quasi una versione scipita di Action 52 (ma senza il fascino perverso del teratoma ludico della Active Enterprises). La grafica è piattissima stile MS Paint, e l'esperienza ludica rimanda agli albori delle varianti single-player di Pong.



Va meglio quando ci si butta sulle importazioni, anche se ovviamente ci sono titoli migliori e titoli peggiori. Ma non siamo qui per parlare dei giochi che hanno visto tutti: ci sono siti più snob per questo, tzè, e comunque chissenefrega di sapere che Sonic per Megadrive è stato distribuito anche in Brasile? Ci sono cose più interessanti da osservare, per esempio che solo in questa nazione potete imbattervi in Earthworm Jim per Master System. Per la verità, non si tratta di altro che di una conversione dall'edizione per Game Gear, quest'ultima prodotta da una ditta inglese (Eurocom) per i mercati occidentali (anche se credo sia comunque di difficile reperibilità); Eurocom si è probabilmente occupata anche di portare il codice relativo su SMS -del resto SMS e GG sono in pratica la stessa macchina, non proprio un lavoraccio insomma. Il perché sia stata venduta solo in Brasile non lo so con certezza, ma posso immaginarmi delle validissime risposte. Il gioco in sé, comunque, non è venuto troppo male, considerando le differenze dell'hardware tra la piattaforme originali (che, vi ricordo, erano 16-bit) e il povero Master System...



Saliamo di un gradino, cioè al Mega Drive, dove incontriamo Nightmare Circus. Un po' come per l'EWJ di cui sopra ci troviamo ancora davanti ad un titolo non locale rilasciato solo in Brasile; a differenza del gioco Shiny, però, NC non è una conversione ma un gioco originale nato e rimasto su MD, quindi è di fatto un gioco praticamente sconosciuto al resto del mondo. NC venne sviluppato nel '91 dalla norvegese Funcom (oggi nota soprattutto per il MMORPG Age of Conan): trattasi di un picchiaduro a scorrimento con elementi platform, caratterizzato da difficoltà proibitiva e una cronica mancanza di carisma e attrattiva. La Tec Toy è stata l'unica casa di distribuzione al mondo a vederci qualcosa di vendibile, apparentemente.



Last but not least, un grandissimo classico: Duke Nukem 3D! Ancora un titolo importato, benché pesantemente modificato dai brasiliani al punto che si potrebbe quasi parlare di un nuovo gioco con nemici e ambienti "somiglianti" a quelli di DN3D (data la grafica rudimentale dell'accrocchio è difficile usare aggettivi più generosi). Due episodi su tre sono stati rimossi e i livelli dell'episodio superstite (quello nella base spaziale) sono stati ridisegnati e semplificati. DN3D per Mega Drive tecnicamente si difende sorprendentemente bene -la grafica ha una sua serafica dignità-, richiede una buona dose di allenamento e può garantire qualche attimo di svago se si riesce a dimenticare com'è la versione originale. Il motore grafico non è il Build e non è improbabile che tutto il gioco sia una "total conversion" costruita partendo da un altro titolo (Zero Tolerance della Accolade). Comunque amen.




Ci vorrebbe un bel commento di chiusura sull'attività della Tec Toy, ma adesso ho troppo sonno. Buonanotte gente.