giovedì 29 ottobre 2015

The Afterman (1985)



Se ci fosse un premio per la scenografia più pigra e scialba mai usata in un film postatomico, The Afterman sarebbe un credibile candidato per la vittoria. Dimenticate i deserti spopolati che Mad Max 2 e Hokuto no Ken hanno imposto come setting obbligatorio per questo genere di film: il belga Rob Van Eyck, regista e factotum di questa pressoché dimenticata pellicola, gira in ameni boschi ricchi di vegetazione e mostra orticelli coltivati perfettamente sani. Idem dicasi per gli homo sapiens: non se ne vedono molti, ma sono tutti più o meno in buona salute e dotati di fisionomie normali. Per dare l'impressione di mondo desolato, la scenografia si accontenta di far vedere qualche casa diroccata. Dove sono tutti i danni da bomba atomica che il cinema di genere ci ha insegnato ad amare? Beh, io non ho una risposta.
The Afterman fuoriesce dal Belgio, lato Fiandre, nel 1985. È un film con diverse particolarità. Una è discussa appena sopra: è un postapocalittico che non assomiglia per niente a un postapocalittico. All'inizio ho parlato in effetti di postatomico, ma la vera verità è che non c'è nulla che faccia realmente pensare che una bomba sia esplosa da qualche parte: il suggerimento viene unicamente dalla cover del DVD, sulla cui attendibilità non metterei la mano sul fuoco. Volessimo scartare questa interpretazione nucleare, potremmo dirigerci verso virus antropofagi, meteoriti, catastrofi ambientali di vario tipo, gamma-ray burst, zombi, parusie o kaiju: un'idea vale l'altra, tutto ciò che si sa è il cosa (= il mondo è assai meno popolato e più regredito di come lo conosciamo), mentre il come (= qual è la causa del disastro?) non sarà mai chiarito. È fin troppo evidente che Van Eyck non aveva franchi sufficienti per costruire un mondo desolato come Dio comanda1, ma l'impressione generale è che, dopotutto, neanche gli interessasse farlo (They just didn't care, come direbbero su TV Tropes). L'importante era la storia che aveva in mente, e basta.

E qual è questa storia? Va premesso che non è semplicissimo inquadrarla, perché un'altra particolarità di The Afterman, forse la sua caratteristica più peculiare, è la totale assenza di dialoghi. Si tratta quindi di intuire quel che succede su schermo… impresa ardua, vista la controintuitività delle situazioni. L'"Afterman" del titolo è un ragazzone di circa 35 anni (Jacques Verbist), dall'aspetto nerdoso e un po' sciatto, che vive in un bunker pieno di computer che, a quel che sembra, monitorizzano tutte le funzioni del rifugio. Il nostro uomo sembra essere qui da solo da molto tempo, forse anni (da quando il non specificato evento ha messo fine al mondo come lo conosciamo, probabilmente), e riempie le sue giornate mangiando cibo artificiale e scopando una donna cadavere tenuta in ghiaccio in una cella frigorif...

...ok, un momento.

Non so che genere di film avesse in mente di girare il buon Van Eyck. In pochi lo hanno visto, ma qualche opinione in rete si trova. C'è un certo consenso nel ritrovare, in questa pellicola, temi di una certa profondità: nella fattispecie si riscontrerebbe una riflessione sulla natura dell'uomo e dei suoi bisogni. Forse c'è del vero, ma è curioso constatare quanta sexploitation il regista abbia deciso di buttare dentro al film per fare passare il messaggio. The Afterman non è un porno, a fatica lo si potrebbe considerare un erotico, ma c'è comunque abbastanza carne (femminile) esposta da poterlo accusare di gratuità. L'intera pellicola parla di una comunità umana in cui ognuno è per sé e contro chiunque altro, e la soddisfazione dei bisogni della carne e dello stomaco è l'unica cosa che conta: mi sta bene, ma a che serve in tutto questo una scena lesbo di cinque minuti, ai fini della trama? Penso che tutti sappiamo la risposta.

Tornando a noi: la routine ormai atemporale del nostro uomo barbuto si interrompe quando un malfunzionamento dei sistemi di controllo rende inabitabile il bunker. Costretto ad affrontare il mondo esterno, l'Afterman si troverà invischiato in una serie di disavventure che sarebbero pure fantozziane se non fosse per l'atmosfera un po' squallida e cupa dell'ambiente (Van Eyck non sembra poi così sprovveduto, diciamolo). Il film ha una struttura grossomodo episodica, costellata di strane incoerenze nel setting2 e scarsamente comprensibile. Il nostro eroe subisce soprusi di vario tipo: viene sodomizzato dai primissimi uomini che incontra, addirittura, e verrà poi catturato e utilizzato come schiavo da un violento redneck. Durante la prigionia avrà una compagna di sventura, una ragazza bellissima (credo si tratti di tale Franka Ravet, purtroppo apparsa solo in questa pellicola) con la quale formerà, dopo un'iniziale diffidenza, una solida unione affettiva destinata a durare fino alla fine del film. Fine che giunge dopo un'ora e venti circa -non è un'opera lunghissima- e che, come era lecito aspettarsi, non è nemmeno un finale vero…

Soprassiedo sulle altre vicende che comunque non fuoriescono dal trend generale della pellicola e vado direttamente alle conclusioni. The Afterman in sostanza non mi ha deluso, ma probabilmente il mio parere sarebbe meno positivo se non ci fossero state quelle due o tre paia di tette che si vedono in giro. Ok, niente di trascendentale (anche se si tratta comunque di belle donne, la Ravet poi è davvero splendida), ma un po' di fanservice fa sempre il suo sporco lavoro. Le prove attoriali sono nella decenza (l'assenza di dialoghi ha aiutato), la qualità tecnica si salva e la stramba natura un po' arty e un po' exploitativa del tutto rende The Afterman un passaggio consigliato a tutti gli amanti delle stramberie. Tutti gli altri girino al largo.



[1] precisazione personale sulle lande postatomiche. Mad Max 2 settò uno standard quasi universale per questo tipo di ambientazione, ovvero l'outback australiano. Una scenografia suggestiva e funzionale che è entrata nell'immaginario collettivo, e sinonimo stesso del paesaggio postapocalittico in connubio con le città sporche e desolate stile Fuga da New York. Ma è pur vero che nessuno obbliga a costruire storie “after the end” forzatamente collocate in posti del genere. Due esempi a caso: nel 1901 Shiel ambientava La nube purpurea in una Terra con biomi sostanzialmente integri; la stessa cosa accadeva nel neozelandese The quiet Earth, questo peraltro coevo di The Afterman.
[2] nonostante l'indefinita catastrofe abbia senz'altro azzoppato la civiltà, vediamo posti inspiegabilmente ancora perfettamente funzionanti (un bunker è sfarzosamente arredato, con anche una piscina piena di acqua pulita e clorata; lo stesso rifugio del protagonista consuma per certo parecchia elettricità, che non si capisce da dove venga); a poca distanza vediamo invece contadini che non hanno il benché minimo macchinario e usano schiavi per tirare un aratro...

domenica 18 ottobre 2015

Super Mario bros. special (NEC PC-8801, 1986)

In quanto serie longeva, gradita e fruttifera, la saga dell'idraulico Mario possiede un albero genealogico lungo e complesso, che ramifica in tutte le piattaforme Nintendo e svariate altre di altre Case. Già a poca distanza dalle radici il vegetale dinastico comincia a prendere pieghe bizzarre, essendo almeno tre gli immediati successori del leggendario Super Mario Bros del 1985. Gli SMB che si fregiano del "2" sono infatti altrettanti: riassumendo per i poco informati, a noi occidentali venne propinato come SMB2 l'adattamento marioso di tal Doki Doki panic (senza più blocchi da prendere a testate e goomba da spiaccicare), mentre il seguito "vero" -decisamente aderente agli stilemi del primo- uscì solo in Cipango e rimase ignoto alla maggioranza degli europamericani fino a che non fu recuperato su SNES in Super Mario All-Star, col nome di SM Lost Levels.
E il terzo successore? Si tratta ovviamente -come già spoilerato nel titolo del post- di Super Mario Bros special, che nonostante sia l'unico dei tre a non avere il "2" nel titolo è probabilmente il reale successore di SMB 1 almeno da un punto di vista cronologico (dico "probabilmente" perchè non trovo notizie certe e non ho voglia di googlare (lo so, non sono molto professionale (e me ne vanto))). Nelle intenzioni, invece, non si tratta di un sequel in senso stretto: è più una variazione sul tema del primo titolo.
Scritto dalla Hudson Soft su licenza Nintendo (e non dalla grande N stessa, sorprendentemente), praticamente sconosciuto in occidente, SMBS andò a finire sul PC-8801 e sull'X1, due computer prodotti rispettivamente da NEC e Sharp e mai usciti dal Giappone; in pratica quel genere di aggeggi per un esemplare dei quali baratterei volentieri buona parte del mio parentado. Dovendo lavorare con hardware più problematico di quello del NES, i programmatori della Hudson scesero a compromessi tali da snaturare il Mario originale: è probabilmente questo il motivo per cui si scelse di non fare un porting fedele del gioco di Miyamoto. SMB Special in verità sciocca ogni utente avvezzo alle classiche meccaniche mariose. Gli sprite sono di fatto uguali a quelli ben noti, ma il titolo ha un aspetto quantomeno lisergico, dominato da gialli, rossi e blu soprassaturi e del tutto privo di bianchi e verdi, che mette a dura prova le retine di chiunque (coadiuvato in questo da non sporadici sfarfallii), e la ben nota melodia viene riprodotta abbastanza alla qazzo di qane, un po' gracchiante e un po' saltellante. Quanto al sistema di gioco, la novità più evidente è che scompare lo scrolling: e qui son cazzi. Scartata infatti la decisione di mantenere un schermo scorrevole come nel capostipite -suppongo per difficoltà tecniche-, gli autori di SMBS optarono per una suddivisione dei livelli per quadri statici; una scelta che influisce non poco sul gameplay, dato che sadicamente non sono certo pochi i salti che ci si trova a dover fare "al buio", senza poter vedere dove atterreremo perchè la piattaforma che ci attende si trova nella schermata successiva e la sua posizione è ignota fino all'ultimo. Ad aggravare il tutto ci si mette una fisica agghiacciante che rende faticoso gestire i movimenti di Mario, sia a terra sia soprattutto in aria. In conseguenza di tutto ciò la difficoltà del gioco è estrema, e proseguire diventa un esercizio basato sostanzialmente su prove ed errori. Finezza ulteriore, la brodaglia viene allungata dal fatto che ad ogni morte tocca ricominciare dal principio del livello.
Non ci sono altre modifiche evidenti, se non che tutti i livelli sono stati ridisegnati rispetto al primo Mario, rendendo così peraltro impossibile usare l'esperienza guadagnata giocandoci in questo strambo sequel. Onestamente, nonostante i miei termini poco generosi SMBS è un gioco in realtà affascinante, che richiede però quantitativi non comuni di pazienza e abilità manuale per essere goduto appieno. Per me, che sono fondamentalmente un cialtrone del videogaming, sono state necessarie tre ore per adattarmi alla sbilenca coordinazione dei movimenti di Mario ed arrivare alla fine (dopo infiniti trial&error) a vedere addirittura il SECONDO livello. A quel punto ho preferito chiudere l'esperienza, per esaurimento nervoso (e anche perchè gli esuberanti cromatismi mi stavano bruciando le cornee). Consiglio comunque a tutti di dargli un'occhiata.


sabato 10 ottobre 2015

L'arbitro (2009/2013)





Nel 2009 il cagliaritano Paolo Zucca gira un curiosissimo cortometraggio che in quindici minuti scarsi concentra spericolatamente un gran numero di eterogenee suggestioni: stereotipi bucolici in generale e sardi in particolare si fondono con estetica dadaista, richiami a Ciprì e Maresco (tra cui il b/n è forse la caratteristica meno marcata), echi di Osvaldo Soriano e cupi riferimenti biblici, il tutto su un substrato costituito dal sempiterno gioco del futbol (o meglio, di quello che passa per tale nelle estreme periferie del dilettantismo). Nel corto -che merita almeno una visione, quantomeno in premio all'originalità- un arbitro corrotto (Luca Pusceddu) retrocede per punizione dalle stelle dell'UEFA alle stalle della terza categoria, dove finisce ad arbitrare una partita tra due squadre che è in realtà somatizzazione di una faida tra borgate; nel frattempo proprio in seno a uno dei due team si consuma il dramma di due pastori che -anche se compagni di squadra- sono a loro volta in guerra tra loro.

Il corto è apprezzatissimo (fa incetta di premi anche all'estero) e nel 2013 Zucca lo dilata fino all'ora e mezza riempiendolo anche con nomi di spicco (Accorsi -che prende il posto di Pusceddu-, Pannofino, Di Clemente, la Cucciari, Messeri). La storia raccontata nel corto viene rigirata in modo praticamente identico e diventa il finale, così che tutti i settantacinque minuti precedenti servono nei fatti a costruire una cornice un po' più corposa alla partita. L'arbitro assume così una personalità più dettagliata, la faida tra i paesi assume un respiro più ampio e molto spazio viene dato a personaggi singolari e spesso inediti rispetto al corto (il bomber Matzutzi che torna dall'argentina, il coach cieco dell'Atletico Pabarile e la di lui figlia, il fetentissimo arbitro Mureno).

Divertente, piuttosto insolito e molto ben girato, con un b/n splendido. Gli appassionati di Osvaldo Soriano non mancheranno di notare un esplicito riferimento al grandioso racconto Il rigore più lungo del mondo. Alcuni dialoghi sono purtroppo in sardo e non si capisce un cazzo, ma sono solo due o tre e comunque il senso generale del discorso è comprensibile.

Geograph Seal (Sharp X68000, 1989)

Un imprecisato giorno del 1997 andai a Desenzano del Garda a comprarmi una Playstation, obiettivo a cui miravo da tempo. Originariamente la mia intenzione era quella di abbinare l'acquisto a Tohshinden 2 (o come cappero si scrive); col passare del tempo l'idea divenne invece quella di prendere Tekken 2. Quel giorno del 1997 il negozio non aveva nè l'uno nè l'altro, e davanti alla prospettiva di dovermene restare a fissare il bios della console (che non potevo nemmeno usare per ascoltare i CD musicali, perchè non ne avevo nemmeno uno) finii col comprare, non ricordo come e perchè, Jumping Flash 2. Che non avevo mai sentito nominare. E che mi piacque assai.
JF2 è il seguito di un gioco di cui al momento non mi sovviene il nome. Entrambi sono stati prodotti da una softhouse giapponese poco nota in occidente chiamata Exact, che un giorno sarebbe stata assorbita dalla Sony; nei suoi anni da indipendente però ebbe modo di secernere qualche simpatico giocattolo per Sharp X68000 (mai usciti dal Giappone nè il computer nè tantomeno i giochi). Tra questi troviamo Geograph Seal, uscito nel 1994, da cui i JF si discosteranno ben poco.

Geograph Seal dunque. Allora, sostanzialmente GS prende le mosse da un oscuro prodotto a nome Gamma Planet, uscito sempre per X68k nel 1989 dalla altrettanto oscura software house Compac (almeno così parrebbe). Gamma Planet era una sorta di FPS ante-litteram con molti prestiti dal presitorico Battlezone della Atari (in primis la grafica vettoriale). Cinque anni dopo Exact riprende da GP quasi tutto, sostituisce vettori con poligoni, aumenta la velocità e tira fuori Geograph Seal.
In sostanza GS ci vede alla guida di un mech che deve aggirarsi per livelli irti di ostacoli e nemici allo scopo di distruggere una serie di target, abbattuti i quali si passera al boss, abbattuto il quale si passerà al livello successivo. La prospettiva è in prima persona e la grafica totalmente poligonale, senza uno straccio di texture (io amo questa cosa) e con qualche oggetto addirittura in wireframe, cosa che alla fine può rievocare il leggendario Starwing (o Star Fox, che dir si voglia) per SNES, uscito peraltro l'anno prima.
I livelli nei quali il nostro mech si aggira hanno una semplice pianta rettangolare delimitata da mura invisibili e non sono particolarmente grandi, ma i nemici sono numerosi, si rigenerano continuamente e possono arrivare da ogni direzione. Possono essere abbattuti usando una serie di armi, disponibili subito o droppate dai nemici eliminati; le armi hanno fondamentalmente proiettili infiniti, ma un aspetto piuttosto originale è che il loro utilizzo è subordinato ad una barra di energia che si svuota tanto più rapidamente quanto più rapidamente spariamo, e che si ricarica (non troppo velocemente) quando non stiamo sparando: ergo, tenere premuto perennemente il tasto di fuoco è una PESSIMA idea, i nostri cannoni devono "respirare". Quest'idea, in qualche modo già vista in R-type, viene direttamente da Gamma Planet e non sarà mantenuta nei Jumping Flash. Sarà un'altra peculiare caratteristica invece a proseguire in JS, quella del salto multiplo: ovvero, se il mach si trova in aria in seguito ad un salto può saltare di nuovo (per un massimo di due volte) per arrivare più in alto; dopo il secondo la visuale si abbassa automaticamente in modo da farci vedere il terreno e capire dove precipiteremo. Se finiremo su un nemico tanto meglio, si possono ammazzare anche a pestoni! Per difendersi dai colpi avversari possiamo nasconderci dietro i numerosi pilastri e colonne sparsi per il terreno; ogni colpo subito abbassa la resistenza del mech, indicata dalla barra "shield", e quando questa arriva a zero parte una vita. Dopo tre vite è game over.
Un secondo tipo di livelli (meno numerosi) ricalca molto da vicino il già citato Starwing. La visuale è sempre in prima persona ma non controlliamo il mezzo, che in questi stage vola per i fatti propri, bensì solo il mirino per abbattere i nemici che ci si parano davanti.
La meccanica di gioco di GS è parecchio confusionaria. Il ritmo è piuttosto elevato e la grafica di non facile lettura, anche perchè manca del tutto una mappa degna di questo nome e l'hud di gioco ha un radar limitatissimo. Purtroppo GS supporta solo joypad a due tasti, ergo: con uno si spara, con l'altro si salta, premendoli entrambi si attiva il menu o si alza/abbassa lo sguardo; in questi ultimi due casi, per decidere se aprire il menu o cambiare la visuale, il gioco valuta se, al momento della pressione dei tasti, era contemporaneamente premuto un tasto direzionale (quindi viene cambiata la visuale) o no (e allora si apre il menu). In fasi di gioco abbastanza concitate rendersi conto di queste combinazioni è tutto fuorchè pratico, anche perchè i tasti direzionali, servendo soprattutto a muovere il mech (ovviamente), sono premuti praticamente sempre, e la cosa finisce puntualmente per interferire con la doppia pressione dei tasti. Ahimè, è una falla di giocabilità piuttosto grave che mina un gioco interessantissimo. La cosa verrà risolta in JS sia perchè la Play di tasti ne ha una decina, sia perchè il gioco stesso ha ritmi assai più blandi.
Più o meno è tutto qua. Jumping Flash in occidente non ha ricevuto il successo che meritava, così dubito che Geograph Seal avrebbe potuto giocarsi le sue chance; ma si tratta comunque di un titolo pieno di buone idee e molto valido soprattutto tecnicamente (anche le musiche sono azzeccate). Scelte meno miopi sui controlli avrebbero potuto rendero infinitamente più giocabile e, in ultima analisi, divertente. Merita comunque un giro, così come i Jumping Flash e, se proprio siete curiosi, Gamma Planet.