domenica 29 maggio 2016

Tuvalu (1999)

Non solo Mel Brooks (Silent Movie, 1976 (in Italia maltitolato L'ultima follia di Mel Brooks)) o Michel Hazanavicius (The artist, 2011): l'epoca cinematografica recente e contemporanea, decenni dopo il tramonto del muto, porta diversi esempi di film poco o punto parlati. Nel mazzo appare anche questo sorprendente esperimento visivo ad opera del (folle?) tedesco Veit Helmer, una favola romantica quasi muta e quasi senza colori.
Tuvalu è la storia di Anton ed Eva, factotum (lui) e cliente (lei) di una piscina pubblica un tempo prestigiosa ed ora decaduta e fatiscente. Anton si innamora di Eva dal primo momento in cui la vede, e anche lei, dapprima riluttante, comincia a ricambiare. Le cose precipitano quando il padre di Eva muore per via di un crollo nel soffitto della piscina: Anton viene accusato di negligenza, Eva gli addossa la colpa della morte del genitore, e una perizia che fa seguito alla tragedia stabilisce che lo stabile non è agibile. Anton avrà tre giorni di tempo per sistemare l'edificio e riconquistare l'amata, ma il suo perfido fratello Gregor -il vero responsabile della morte del padre di Eva- ha altri progetti, e rema contro a sua insaputa.
Dichiaratamente ispirato ad un certo cinema di tanti anni fa (Jacques Tati in primis), Tuvalu è un "oggetto" straordinariamente sperimentale. Grandissime le prove d'attore dei due protagonisti: Anton è il camaleontico e inafferrabile Denis Lavant, esponente di spicco del cinema underground francese e non solo; Eva è la singolarmente affascinante Chulpan Khamatova, attrice tatara che proprio nel '99 ottenne una certa celebrità col surreale e divertente Luna Papa (coproduzione tagico-russo-tedesca che ebbe un notevole riscontro internazionale). Gran parte del fascino del film sta anche nelle location (che, tanto per proseguire con la macedonia di nazioni, sono in Bulgaria): lo stabile della piscina è un desolante, ma a suo modo dignitoso, palazzone stile primi del '900 che non sarebbe dispiaciuto a Gilliam; gli esterni sono profondamente piatti e deprimenti. Quanto ai tecnicismi, il 99% dell'audio è occupato dai normali rumori di acqua che scorre, macchinari che lavorano, gente che cammina o si tuffa; non c'è colonna sonora, eccetto per un frammento delle Mystere des Voix Bulgares* e per Mocking Song di Goran Bregovic che commenta gli ultimissimi istanti e i titoli di coda; non c'è parlato, se non per sporadiche chiamate per nome o poche parole di valenza internazionale (un "ciao", uno "chaffeur", un "inspektor"). Per quanto riguarda il colore: c'è, ma non c'è. Tutto il girato è stato desaturato in modo da rendere il film in bianco e nero; dopodichè uno strato di colore è stato sovrapposto alle immagini, tinta che cambia in base alle ambientazioni; così tutte le riprese in esterni sono di un gelido grigio-blu, quelle nella sala della piscina gialle, nella sala macchinari rosso-arancio...
L'intero stile dona al film un'aria fiabesca e ovattata, quasi da fumetto (un po' alla Amelie). Unito ad una vicenda tutto sommato lineare, è chiaro come ci si trovi davanti ad un cinema di forma, più che di sostanza: Tuvalu non vale tanto per quello che dice, ma per come lo dice. E lo dice bene.



* Le Mystere des Voix Bulgares in realtà non sono accreditate da nessuna parte; il frammento che ho nominato tuttavia è un pezzo vocale pienamente nel loro stile, e dati gli stretti legami del film con la Bulgaria sono abbastanza convinto che il contributo sia proprio loro.